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Pensieri e note

Verità, sudore e riposo

Un masso, enorme peso,
grava sulla mia schiena,
mentre affannato lo porto
al luogo della mia dimora.

Un passo, impreco,
mi piego e incasso,
ancora un pugno o uno schiaffo
ed esploderò,
come un piccolo petardo
in mezzo a una strada affollata
nel giorno di Carnevale.

Soltanto un grosso sasso,
ma grande bellezza
verrà dalla sua incisione,
e forse servirà al mio godimento
questa mia fatica,
alla contemplazione
di una nuova cosa buona,
una nuova creazione,
per me e per lo scultore.

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Pensieri e note

Il cieco di Betsaida

Che cosa c’è da vedere?
Che c’è più di bello da cercare?
E’ forse intorno a me che è tutto buio
o sono io che non so più guardare?

Vedo gli uomini
come alberi che camminano,
alberi in cui incidere il mio nome,
alberi da abbattere per farmi calore,
alberi da lavorare
per farmi un posto comodo dove sedere.

Vedo gli uomini
come alberi che vivono,
alberi che muoiono
alberi che cadono e che si rialzano,
alberi che soffrono,
alberi che gioiscono.

Vedo gli uomini,
o forse non li vedo affatto,
li osservo accendersi e spegnersi
come un incendio, da lontano,
e non provo nulla che non si addica
ad un pezzo di legno da usare.

E tu mi vedi,
fermo sul ciglio della mia strada,
con due o tre alberi accanto,
che mi spingono e mi tirano,
dove io non voglio andare:
mi chiedo se mi vorrai sanare.

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La mia bussola

La guardo:
gira,
si perde,
si ritrova imbarazzata
e si nasconde,
come un bambino timido
dietro alla mamma.

La osservo,
mi aspetto la risposta:
“Qual è la direzione?”

La fisso, con occhi
pieni di lacrime,
per questo vento freddo,
e lei è lì,
nel palmo della mia mano.

E cos’è più importante,
la mano o la bussola?

Alzo gli occhi e li vedo:
felicità e vita,
come me,
ma senza questo fardello,
così vivi
che non sembrano reali.

Essi non sembrano, eppure sono,
oltre a questo apparente nulla,
al “tutto qui”, “ora”,
al segno tangibile,
e quello che fin’ora non ha visto
ero io.

Tutto ciò che io posso
è alzarmi e fare
qualcosa per me,
da me non previsto:
guardare sé stessi
oltre il proprio ombelico,
e camminare verso una meta
così desiderata
e così poco conosciuta.

Ti guardo e penso:
“guidami tu,
compagna di viaggio”
che io non riesco, e vorrei
fermarmi qui.

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Tavolozza

Sono bianco come il mio mal di testa, come le sclere degli occhi, come il mio culo non abbronzato, come i termosifoni spenti e i libri sullo scaffale, come le pareti della mia camera gialla.
E sono rosso come la bibbia e la mia chitarra.
E sono incazzato grigio tendente al nero, come il mio quaderno delle note.
E sono verde come la mia avidità.

E poi sono sentimentalmente daltonico.

Di che colore sei?

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Tre metri

Lo so che siamo tutti chiusi fuori.
Siamo tutti così lontani dalla tua testa in fiamme, perché mai dovresti ascoltarci?
Forse non ti ricordi neanche più chi siamo.
Dani, ascoltaci, ti amiamo.

Sembri un astronauta, con tutti quei tubi, e quelle macchine sembrano l’astronave con cui, da piccolo, dicevi che ci avresti fotografati tutti, là in alto, dalla Luna.

Invece ora siamo noi quelli troppo lontani per poterti abbracciare, e stiamo pregando che tu possa restare ancora un po’ su questa terra, con noi.

Forse tra qualche ora ti risveglierai, spaccherai a cazzotti e lacrime quella campana di plexiglass che ci divide, e sentirai le nostre grida di gioia.
Forse tornerai a camminare, a parlare, a ridere con noi.
Forse capirai con questa esperienza che un’amicizia come la nostra ha un sapore incredibile, che né la carne né lo spirito potranno mai farti gustare. E sa far rivivere i morti.

Forse, allora, sarà vero.
Forse che, a volte, è una caduta che ti porta in alto?

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Questa è la mia prigione

Lo so, Padre, ho sbagliato.
Sono stato ingenuo, vigliacco, bugiardo, ma non sono mai stato un violento.

Qua dentro l’aria puzza di sangue e merda, di lacrime.
L’odore di Cif sul pavimento non basta a coprire questa puzza metifica.

Solo un alito di vento.
Solo un alito di vento può cambiare l’aria qua dentro.
Aria fresca, aria pulita, in questa periferia dimenticata da tutti.
Forse anche te, Padre, ti sei dimenticato di noi?

Un alito di vento sta entrando tra le sbarre della finestra nell’atrio, di fronte alla mia cella.
Mi metto la sciarpa, per difendere quella salute che, qua dentro, è un vestito da signori.
Mi può fare male, il vento, ma lo invidio lo stesso.

Il vento può entrare e uscire da questa cazzo di prigione quando vuole.
Come un Robin Hood coi superpoteri ruba la mia prigionia, elude le guardie, porta il mio sguardo lontano, oltre quelle nuvole che, dietro alle sbarre e alla porta

blindata, non posso che intuire, imaginare là, nel cielo.

Qui dentro nessuno ride, nessuno canta, nessuno ama.
Sono tutti prigionieri, i carcerati quanto i carcerieri, e il vento è il solo che esce leggero da qua dentro.

Lo so, Padre, che sei con me, ma a volte la tentazione di uscire da questa vita, aprendomi una porta sui polsi, si fa davvero sentire.

Dopo una vita passata nel lusso, capisco che LUSSO non significa RICCHEZZA.
Io per questo fraintendimento ci ho rimesso un’infanzia, una giovinezza, e adesso anche i primi anni di un matrimonio insperato.
E ho un cuore debole, malato.

Quale direzione? Quale strada prendere?
Quale, tra una che riporta al gelido inferno della Camorra, alle vane certezza di una vita al servizio della morte, e una che, dopo un lungo cammino, porta al fallimento del Golgota?

Questa è la mia prigione, tiepida, grigia, nauseante.
La mediocre prigione di chi si ferma.

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1 a.m.

E’ l’una di notte,
una e mezza
e scrivo,
come se non ci fosse un domani,
un domani per me
che dovrò lavorare,
che devo riposare,
per paura di dormire.

Mi sveglierò?
Certo… no?

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Verso

Passo dopo passo,
sudando parole e pensieri,
tra i solchi neri dei campi
come i righi sul foglio
o tra pagine vuote
come lande deserte,
cammino,
finché la tua mano mi spingerà
e finché le mie gambe mi reggeranno,
in continua ricerca
di Te.

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La notte delle stelle cadute

Se chiamassi
con il loro nome
le cose di cui ho paura
sarei ben più libero.

Che abbia paura
che, chiamandole, giungano?
Che abbia confuso
la mitezza con l’apatia?
Ho tante scuse
quante sono le stelle.

Quando cadranno le stelle
e il cielo di notte
sembrerà buio e perso
il mio spirito sarà libero
di aspettare il sole eterno
e questi versi
saranno pietre.

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Lontano

La mia chitarra è, in questa densa notte, muta
come un radar su un relitto in fondo a un abisso.

Abisso, oblio,
relitto dimenticato,
da qualche parte,
forse.

Ecco, adesso la mia mente naviga sulla rotta medesima
dove cinquant’anni fa navigava quella stessa nave.

Forse anche la mia stanza è naufragata qui,
e in questa notte limpida, profonda come quelle acque,
il fantasma di un marinaio o lo spettro di una passeggera
si starà chiedendo se, anche io,
da qualche parte
esisto davvero.

Di certo,
un radar su un relitto in fondo a un abisso non suonerà più
per qualcuno vicino,
ma la mia chitarra può ancora suonare
per qualcuno lontano.

E affronto quest’altra notte
come un fantasma affronta la tempesta
quando non vede più nessuno da spaventare,
e forse arriverà il Sole dell’alba
a dimostrarmi che non sono i fantasmi
quelli che io devo cercare.