Categorie
Pensieri e note

Statue

Sai, a volte penso che viviamo in un mondo in cui quelli come me e te non sono e non saranno mai capiti né accettati.
Quelli come noi, le persone con caratteri difficili, diretti, maleducati, insolenti…
Quelli come noi, insomma, non avranno mai spazio nel loro mondo.

Noi siamo la gente comune, la gente che deve accontentarsi, che fa lavori normali e guadagna uno stipendio che (se va bene) le permette di lasciare un appartamento da ristrutturare agli eredi e qualche quattrino per iniziare i lavori.
Noi siamo quelli che non avremo mai esperienze lavorative nel curriculum tali da aprirci ogni porta, e se mai diventiamo manager ne sentiamo solo il peso delle conseguenze.

Loro sono perfetti, posati, professionali, sempre col vestito della festa, sempre coi denti e i colletti bianchi, sempre con le scarpe lucide e i capelli ben tagliati.
I loro fisici sono scolpiti, e se mangiano molto è solo per spendere bene i loro cospicui buoni pasto.
Non lavorano per vivere, perciò non è lontano dal vero il dire che vivono per lavorare: più probabilmente, vivono per il guadagno che viene dal lavoro e non si limita al denaro.
Il loro guadagno sta nel successo, sta nell’essere nel giro giusto, sta nel sentirsi accettati dagli altri – altri che non sono veramente interessati ad accettare o interessarsi a loro, e la cosa è reciproca.

Eppure nessuno di loro, sotto sotto, è come vuole sembrare.
Sono sempre stati come noi, e tolto l’abito alla moda e lo sguardo da persona di successo, quando sono soli nel loro cesso, loro si rivelano per come sono.
Loro diventano come noi.
Loro sono fragili, hanno incertezze sul loro futuro, spese che non tornano (poco cambia che siano spese dovute ai loro bisogni essenziali o ai loro vizi), ma non hanno la vertigine della precarietà che abbiamo noi, quando la abbiamo.
Perché, in fondo, anche noi ce la passiamo bene più di qualche volta.
No, non stiamo con le pezze al culo, e le difficoltà ci sono ma si affrontano – loro, spesso, pagano altri per affrontarle al posto loro, pagano case di cura per i genitori anziani, tate per i loro figli, domestiche per pulire il cesso.

Sono diventati incapaci di amare soltanto per non soffrire, per smettere di giudicarsi, per non sentirsi in colpa né vedere le proprie mancanze. Chi li smerda, per loro, è morto.
Noi, spesso, ci giustifichiamo, neghiamo l’evidenza, ma conosciamo i nostri limiti.
Siamo sbagliati, peccatori, infami, traditori, ma sappiamo chiedere perdono e perdonare, a volte persino amare.
Loro, purtroppo, sanno giudicare gli altri, sempre con due pesi e due misure, e quella che provano per sé stessi non è più indulgenza o vergogna ma solo una strana, stagnante apatia.

Hanno passato una vita a tagliare, smussare e comprimere sé stessi, pur di entrare in quelle scatole che altri hanno confezionato per loro.
E poi vogliono fare lo stesso con noi, troppo eccessivi, troppo esuberanti, troppo abbondanti.
Ci costringono a essere più piccoli, più falsi, più contenuti, con la sottile minaccia di toglierci ogni confidenza e con la promessa di rimanere dei falliti.

Noi, però, vediamo il bicchiere mezzo pieno. In ogni fallimento, noi vediamo un’opportunità.
E loro, tutti impostati, con le giuste maniere, i dovuti modi, la loro simbolica immobilità, la loro concreta incapacità di agire, ciechi, ci guardano dall’alto come statue su un piedistallo.

Noi veniamo da ogni parte, da ogni credo e ogni tradizione, ma siamo tutti consapevoli che dalla morte può nascere la vita.
Loro si fermeranno solo sotto la loro splendida, scintillante, monumentale lapide.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.