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Poesia

Zeitgeist/Pianeta Merda

Tu non credi, lei nemmeno
solo io son tanto scemo
da riporre la mia fede
in un Dio che non si vede

Spirito della nostra era,
chi ti accoglie e chi ti fugge,
chi ti ignora e chi si batte
contro te, per la sua vita

Io, per questi, sono lento,
non capisco tanto i segni,
corro spesso controvento
e non penso al mio domani

Tra le libertà civili
ed una violenza cieca,
preferisco star seduto
con un mate sul divano

C’è chi muore per battaglie
E chi vuol schiacciare gli altri
Sia da un lato che dall’altro
Io resto da un’altra parte

No, non sono progressista
ma non vivo nel passato:
vivo solo la mia vita,
tutto il resto mi è lontano

Credo che il nostro futuro
se verrà, sarà diverso
che sia perso tra le stelle
o gobbi nelle caverne

Tu ti incazzi, io sto zitto
La paura è nel mio sangue
Ma il tuo volto, amore mio
E’ segno della sua mano

Loro parlano di yoga
fanno ore in meditazione
trascendendo ogni reame
restano solo persone

Io, povero contadino,
ho le mani su una vanga
credo solo in quel che vivo
e rispetto la mia terra

Sì, sarcastico e cattivo,
me lo immagino il tuo sguardo,
hai ragione, sono solo
una mosca sullo sterco

Però ciò che non capisci
è che anche tu sei uguale:
tutti sul pianeta Merda
attendiam l’ora fatale.

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Pensieri e note

L’importanza di essere annoiati

Ho sempre fatto fatica a trovare qualcosa da fare quando ero bambino. Le giornate erano lente e io spesso leggevo, disegnavo, stavo con mia mamma che cucinava e parlavo con lei per ore.

Gli ultimi anni della sua vita, quando io avevo 10-11 anni, ci siamo avvicinati tantissimo, scoprendo i suoi interessi e i suoi modi di ragionare.

A 10 anni mio padre prese il primo PC e da lì nella mia vita hanno fatto irruzione i videogiochi. Poche dipendenze hanno fatto male alla mia mente e al mio tempo (e, a pensarci bene, un po’ anche al mio portafogli). Figuriamoci poi dopo i 25 anni, quando mia moglie (ci eravamo appena sposati) propone di acquistare una XBox One in offerta per il Black Friday.

É stato l’inizio della fine, almeno per quanto riguarda la mia noia.

C’é voluta la rottura di una vertebra e un anno di stop col lavoro – avendo deciso di lasciare il vecchio per formarmi al meglio e cercarne uno nuovo – per ritornare ad annoiarmi. Un anno in cui ho fatto molte cose e tutte col giusto tempo: ho scritto e registrato canzoni in casa, ho fatto un master e preso certificazioni, ho trovato un lavoro e nel frattempo sono stato un sacco di tempo coi miei amici e sono stato in Thailandia con mia moglie. Era il periodo tra dicembre 2017 e maggio 2019.

Ora lavoro nel mio Comune, ho molto più tempo libero di quanto ne avessi dopo maggio 2019, quando lavoravo in un’altra città sia per orari di servizio che per tempi di percorrenza, e paradossalmente non trovo il tempo o la voglia di sistemare casa, scrivere qualche pagina di riflessioni, disegnare o fare altro di creativo.

Non é che mi manchi la “voglia” di iniziare, ma la sola idea di iniziare mi fa salire la noia.

Se iniziassi a scrivere, prendendo un taccuino e una penna e via, giù col flusso di parole, sarebbe facile. Invece, io penso a quante cose potrei fare nello stesso tempo di più divertenti.

Ecco che solitamente le idee che mi vengono, come “pop-up” nel cervello, sono: videogioco del momento da completare; serie TV in streaming da terminare di vedere; caffé/altra bevanda calda con mio padre – ma solo se non lo vedo da un po’ e se é a casa, sennò niente; computer e internet e qualcosa da fare mi verrà in mente.

Mi sono imposto anche di mettermi, che so, alla batteria ad esercitarmi, o di tirare fuori la chitarra e improvvisare, oppure ancora di collegare il synth al PC e registrare qualcosa… Eppure resta qualcosa di fondo che stona, un senso di insoddisfazione.

Ora é l’1 di notte circa, domani lavoro e questo mio “procrastinare” col sonno mi butta davanti agli occhi l’evidenza: il problema non é cosa fare. Il problema é non fare niente.

Capiamoci bene: non é un problema non fare niente, anzi, é la soluzione.

Durante gli anni lunghissimi della mia infanzia e della mia tarda adolescenza/giovane età adulta io ero relativanente libero dal controllo mentale dei videogiochi e delle serie eccetera. Certo, tra i 18 e i 25 anni ho fatto periodi coi social e momenti di fissa col videogioco, ma tutto sommato ne uscivo sempre abbastanza facilmente, ero motivato e critico. Preferivo “to quit cold turkey”, come i drogati che smettono di botto e ne pagano le conseguenze fisiche.

Tra un mese e mezzo dovrebbe nascere mia figlia (se non decide di nascere prima) e io sono ancora così, ma con il problema ulteriore di doverla educare e dare una buona direzione. Io ci credo davvero nell’importanza di questo, e non posso continuare come faccio ora.

Taglierò coi videogiochi, per forza. Mi metterò in bolla, andrò a dormire presto e mi preparerò un’insalata per pranzo il giorno dopo, aiuterò di più mia moglie e starò con loro alla sera. Riaprirò la relazione col Divino, che sto prendendo sotto gamba da quando ho ripreso in mano un joystick. Proverò ad ascoltare e a parlare meno.

E mi annoierò, tanto. Ma sarò felice, e quel dolio dell’anima che sentirò lo proverò a trasformare in altro modo. E forse dalla noia sublimerà un interesse nuovo per la vita.

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Pensieri e note

Antica profezia

Alla fine fu il progresso.
E venne sotto forma di accesso
Come porta aperta su un oceano di nozioni
Come un libro dalle infinite pagine

Come un punto fu l’inizio dell’uomo,
La retta fu il suo percorso,
Il piano la sua conquista,
Lo spazio il suo futuro

E l’iperspazio divenne la sua dimora
E gli ipertesti divennero libri sacri
E la sua storia divenne un insetto
Spiaccicato sul parabrezza della sua Ferrari

E l’uomo sfumò nella luce,
Glissando dal buio come da un sogno
E divenne simbolo di un idea sbagliata
E incarnazione di un coraggio avvizzito

Un poliedro dalle facce quasi infinite,
Tante che esso pareva una sfera
Celeste e dorata, bianco e nero
Rimase solitario a ruotare nello spazio

Lo chiamarono Terra, o Carne
O Vita, o Casa, o Amore,
O Libro dalle pagine infinite
Ma senza mai chiamarlo col suo Nome

E poi, di nuovo, il Libro prese Vita
Il Verbo si fece Carne,
Il Nome trovò Casa
E amò l’Uomo, nonostante e ancora

Come un punto fu l’inizio dell’uomo,
La retta fu il suo percorso,
Il piano la sua conquista,
Lo spazio il suo futuro

E il costante ripetersi degli uomini
E il costante ripetersi degli errori
E il costante ripetersi delle guerre
E alla fine scoprirsi finiti e perire

E ogni tanto mentre vago
tra l’origine e la meta
Penso a fare il male o il bene
E alle mie chances infinite

Ma come insegna la matrice al punto,
L’infinito é relativo, e il tempo é finito
E così il piano, così la retta
Così lo spazio scoprirà la fretta

Come un ciclo il tempo inizia
E poi finisce quando inizia
Quindi inizia, poi finisce,
Il tempo scorre, e passa un ciclo

E nella notte guardo il cielo
E conto in numero delle stelle
Chissà se il ciclo finisce
Chissà se sarò felice

E il tempo scorre, così le parole
Tra linee rotte fisso
Su questo piano bianco
Mentre il sogno mi avvinghia

Come un punto fu l’inizio dell’uomo,
La retta fu il suo percorso,
Il piano la sua conquista,
Lo spazio il suo futuro

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Pensieri e note

Il frutteto del padre

In un paesino alle pendici di queste colline, un uomo molto anziano, vedovo da tanti anni, aveva due figli e una casa con un grande frutteto.
Il padre sentiva che i suoi giorni su questa terra stavano finendo, e gli acciacchi dell’età si erano trasformati prima in patologie, poi in disfunzioni vere e proprie.
Era allettato da qualche anno e non si sarebbe più mosso da quel giaciglio.

Il figlio maschio, più grande, viveva con lui, gli voleva molto bene e lo aveva accudito negli ultimi anni.
Era un omone alto, con la barba rossiccia già striata di bianco. Aveva superato la quarantina da qualche anno, e da almeno dieci anni viveva col padre.
Proprio quando perse il lavoro per la crisi e la moglie lo lasciò, la madre aggravò e morì nel giro di poche settimane, lasciando il padre già anziano nello sconforto più totale: fu allora che il ragazzone decise di rimboccarsi le maniche e gestire il frutteto di famiglia, ricavando non pochi spiccioli, arrivando anche a rifornire di frutta i negozi di alimentari dei paesini limitrofi.
Piano piano, giorno dopo giorno, il figlio maggiore poteva vedere il padre perdere le forze, ma pensava a tutto e si sforzava di non farlo mai sentire solo e sconsolato, lavorando sodo nel giardino e portandogli da mangiare i frutti del suo frutteto.
La figlia dell’anziano aveva una quindicina d’anni in meno del fratello.
Stufa della prospettiva di una vita tra la sperduta campagna e l’afoso e anonimo capoluogo di pianura, aveva lasciato la casa da giovanissima con la scusa della frequenza obbligatoria all’università, seguendo la sua indole e i suoi interessi ma prendendo strade molto diverse da quelle prese dal padre, dalla madre e dal fratello maggiore.
Adesso viveva in una regione lontana, dove aveva trovato lavoro come ingegnere meccanico, e aveva finalmente messo la testa a posto, sposandosi e dando alla luce due bambini vispi e vivaci.
A causa della sua vita in una città lontana, il padre e il fratello non la vedevano o sentivano anche per lunghi periodi.
Ogni tanto, quando poteva, la figlia minore visitava comunque il padre per cortesia, parlando con lui per alcune ore: talvolta, la figlia leggeva al padre qualche pagina dal proprio diario, raccontando le cose che faceva a lavoro, parlando delle soddisfazioni e delle fatiche in famiglia, e chiedeva infine al padre cosa ne pensasse, i suoi dubbi, i suoi errori e le sue speranze.
Il figlio maggiore attendeva fuori dalla stanza, combattuto tra il giudizio verso la lontananza della sorella e la sua presenza in quel momento, capace di scaldare il cuore del padre infermo.
Ogni volta che la figlia andava a trovare il padre, usciva rincuorata dal suo capezzale, e serena tornava alla sua città e alle sue faccende con qualche cassetta piena di frutta biologica.
Una sera il padre chiamò a sé il figlio più grande: si sentiva ormai prossimo alla fine, e voleva parlare all’unica persona che gli fosse accanto in quel momento.
“Figlio mio, – disse, con voce flebile ma decisa, – tu mi sei sempre stato vicino. Sei stato mia forza quando ero debole, mia gioia quando ero triste, mia speranza quando vedevo solo la fine dei miei giorni.
Stanotte morirò, ma tu non devi essere triste. So quanto mi ami, tu che credi non poter vivere senza di me, ma sappi che ti resterò accanto sempre.
Alza il capo e asciugati le lacrime, perché tua sorella è lontana ma vive, e così i miei nipotini.
Loro sono la tua famiglia, e in loro scorre il mio sangue, il tuo sangue.
Stanotte morirò, ma tu vivrai e dovrai dare un senso ai tuoi giorni.
Ama tua sorella, che vive lontano e che mi ha dato dispiaceri e gioie; amala, perché ha fatto ciò che ho fatto anche io, che sono partito da lontano e ho lasciato la mia casa e ho creato questa famiglia.
Ama tua sorella, amala anche se tu non hai mai preso il largo e non hai mai lasciato la tua casa paterna; vanne fiero, ma volta pagina e scrivi un diario, una pagina per ogni giorno in cui avrai ricominciato a vivere.
Stanotte morirò, e il mio corpo giacerà freddo sul giaciglio e tu mi seppellirai.
Chiama tua sorella, e se non sarà qui a breve, non fargliene una colpa né un debito.
Amala, perché possa sentirsi libera di non esserci quando sarai nel bisogno, ma alla fine scelga di starti accanto.
La libertà è più importante dell’amore, ricordatelo. L’amore si dà e si riceve, ma la libertà che si toglie soffoca ogni possibilità di amore.
Capisci questo, e capirai quanto vi ho amati.
Ti chiedo perdono per le volte che non ho saputo amarti, e quanto vorrei chiederlo anche alla tua sorella lontana.
Tu sei stato a me vicino, ma certe volte sei stato pressante e io mi sono arrabbiato, ma ho capito che lo facevi per preoccupazione e per amore.
La tua presenza è stata una benedizione, sono stato un padre fortunato.
Figliolo… Buonanotte, è ora di andare”.
Detto questo, si addormentò e, alle prime luci dell’alba mentre ancora dormiva, spirò.
Il figlio lo trovò come aveva detto, freddo e disteso sul giaciglio al mattino.
Pensò alla sorella lontana e la chiamò, non prima di essersi chiesto chi dei due il padre amasse di più: se lui, figlio maggiore, fedele, zelante e amorevole; o se forse la figlia minore, indipendente, responsabile e a tratti ribelle.
La figlia giunse il giorno seguente, accompagnata dalla sua famiglia, in tempo per i funerali.
Dopo la funzione e la sepoltura, i due fratelli si trovarono da soli, nella silenziosa casa del padre. Stettero in silenzio davanti al letto vuoto, quindi chiusero la porta della stanza e uscirono di casa.
Mentre i bambini della donna correvano e giocavano nel frutteto col marito, i due fratelli li guardavano camminando sul vialetto che costeggiava il giardino.
La giovane donna parlò al fratello e disse: “Nostro padre ci amava. Tu non mi hai mai capito, per le scelte che ho fatto, ma nostro padre ci ha amato comunque entrambi, nella misura in cui ci lasciava liberi.”
“Nostro padre ci amava entrambi, certo – disse il figlio maggiore, – e non importa che io sia stato qui e tu no, perché ti amava. Amava me per la mia presenza, e amava te perché ovunque fossi ti ricordavi di lui…”.
“Ti sbagli, fratello mio – ribattè la giovane, – però anche io pensavo che fosse così.
All’inizio me ne andai per mio conto, cercando… Non so cosa, forse il divertimento, forse l’affetto, forse l’eccesso… Pensavo che per essere libera avrei dovuto sacrificare l’amore della mia casa, ma quando ho capito che a mio padre non importava quanto andassi lontano e quanto in fondo scavassi, e che anche se arrivavano alle sue orecchie i miei trascorsi lui per me c’era sempre, io… Ho capito che mi stavo sbagliando.
Ma non è solo questo, perché anche quando mi sono laureata, quando mi sono sposata e sono nati i suoi nipoti, lui comunque sembrava non essere interessato a quello che facevo.
C’è mancato poco che non lo mandassi a quel paese e tagliassi i ponti, perché pensavo che così l’avrei reso felice e invece…
Così ho deciso di prendere il mio tempo, il mio ritmo, e ho preso a visitarlo solo quando davvero mi fosse mancato, o lui mi avesse chiesto di passare a trovarlo.
Quando sono venuta a trovarlo l’ultima volta qualche settimana fa, ho letto qualche pagina dal mio diario.
Ho letto di come crescono i miei figli e di quanto avrebbero voluto conoscere il nonno, così lui mi ha chiesto scusa. Si è scusato per i modi freddi che ha avuto, e mi ha garantito che ha gioito per tutte le cose belle che sono accadute a me e alla mia famiglia, ma non voleva che io mi sentissi vincolata a lui tanto da vivere anche quelle mie gioie come un “tributo” a lui.
Io non me ne ero ancora resa conto, ma se prima pensavo di meritare il suo rifiuto, poi ho iniziato a vivere cercando la sua approvazione.
“No, fratello – proseguì la giovane donna, – nostro padre ci amava entrambi dello stesso amore, ci amava forse in modo diverso, ma sempre nella stessa misura: quella della nostra libertà.
E così, ti amava non per le tue azioni, ma perché tu per primo hai accettato di vivere nella libertà che lui ci dava, e liberamente hai deciso cosa era bene per te, e così ho fatto io.
Così voglio ricordare nostro padre. Quando ne parlo alle mie amiche, c’è chi sostiene che avrei dovuto chiamarlo e parlargli tutti i giorni, appena mi alzavo al mattino e alla sera dopo cena, fargli sentire che ero preoccupata per lui, fargli capire che ero una brava figlia, per fargli piacere.
Mio marito, invece, mentre ci stavamo recando qui per il funerale, mi ha detto che pensa che sia stato un bene per me vivere così, lontano dalla casa di mio padre e da te, in mezzo alle tentazioni di questo mondo sbagliato che sta andando a rotoli, in mezzo alla sofferenza e alla precarietà, sbagliando e cadendo, facendomi del male e facendolo agli altri, perché l’amore dato e l’amore ricevuto si possono dimenticare, ma i frutti della libertà maturano lenti ma numerosi, e necessitano molto concime e molte potature”.
“E papà questo lo sapeva bene, – commentò sorridendo il fratello maggiore, – i frutti buoni richiedono metodo e dedizione, ma senza il terreno giusto, la luce giusta, l’aria giusta è difficile anche solo che qualcosa cresca.”
Il fratello maggiore guardò la sorella, si era fatta già bella da adolescente, ma a trentatrè anni aveva in più un’aria di maturità e di tranquillità che sapevano dare pace a chi le stava accanto. I suoi capelli biondi nascondevano bene i primi capelli bianchi.
Di certo non era più la ragazzina inquieta coi capelli tinti di arancione che scappò di casa alla fine delle superiori.
Lui le mise una mano sul capo e lei, di tutta risposta, lo abbracciò forte, lasciandolo un po’ sorpreso.
“Andiamo sorellina, i tuoi ragazzi avranno fame – riprese il fratello, – e io ho una famiglia da conoscere”.

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Life log

Ho paura,
paura di finire
come sono arrivato,
senza accorgermene.

Ciò che avrò fatto,
in un modo o nell’altro,
prima o poi
perderà valore.

Ciò che non si perde
è la reazione,
è la causa legata all’effetto
da un evento che resterà,
eterno.

I tuoi occhi non esisteranno più
ma ciò che li mosse,
l’impulso a guardare oltre,
esso resterà, intangibile –
e inutile anch’esso, forse –
registrato per sempre
nel log della vita.

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Qualcosa per te

Tua mamma mi dice che dovrei fare qualcosa per te.

Dovrei scriverti una canzone, oppure dipingere un quadro, o scriverti una lettera in rima.

Per te, se permetti, non ho intenzione di fare nulla di tutto questo.

Vorrei poter mettere da parte certe cavolate, e iniziare a guardare le necessità, esserci per te e fare in modo che il tuo cercare una guida in me sia ricompensato in maniera non dico degna, ma almeno umanamente corrisposta.

Per te cambierò me stesso, cambierò ció che mi piace e ciò che amo fare.

Per te limerò i miei spigoli e mi abbasseró a pulire merda e sudare freddo.

Per te che non speravo di sapere, per te che non osavo augurarmi di poter un giorno tenere tra le mie braccia, per te io vivo in attesa.

Io che vivo sempre tutto per me, spremo tutto e tutti come un limone per berne il succo e il resto lo butto… Per te mi spremerò e mi butterò giù, e la mia ricompensa sarà forse solo quella di tornare in piedi e riprovare.

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Scatole vuote, scatole piene

Com’é possibile che noi siamo un tale paradosso, così finiti e semplici (per quanto organicamente complessi) eppure così pieni di altro?

Siamo piccoli rispetto al mondo, minuscoli rispetto al Sole, infinitesimi rispetto all’universo.

Eppure, in noi, ha sede un universo concentrico, fatto di bene e male, e tutto ciò che di relativo c’é in un universo.

Non é relativismo, ma un congruo assolutismo, se affermo che le realtà che in noi si verificano cambiano a seconda del nostro umore e di cosa viviamo.

Io stesso non capisco come sia possibile sentirmi così sempliciotto, così naif, quasi volto al bene, ad amare la vita e a pensare sempre bene degli altri, giustificando chi sta facendo il male, ed avere in me un abisso di male nero, profondo quanto un pozzo, da qualche parte, forse nel mio cuore.

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Sogno

Ti ho persa
e non so se fossi tu
o mia madre
ma il mio sogno
era vago
come immergersi
in uno specchio d’acqua
e vederne il riflesso
frangersi

Ti ho persa
e la gente intorno
mi stava accanto
in quel momento grave
si stringevano a me,
al mio corpo
mentre io, da lontano
mi osservavo
freddo e senza dolore

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Statue

Sai, a volte penso che viviamo in un mondo in cui quelli come me e te non sono e non saranno mai capiti né accettati.
Quelli come noi, le persone con caratteri difficili, diretti, maleducati, insolenti…
Quelli come noi, insomma, non avranno mai spazio nel loro mondo.

Noi siamo la gente comune, la gente che deve accontentarsi, che fa lavori normali e guadagna uno stipendio che (se va bene) le permette di lasciare un appartamento da ristrutturare agli eredi e qualche quattrino per iniziare i lavori.
Noi siamo quelli che non avremo mai esperienze lavorative nel curriculum tali da aprirci ogni porta, e se mai diventiamo manager ne sentiamo solo il peso delle conseguenze.

Loro sono perfetti, posati, professionali, sempre col vestito della festa, sempre coi denti e i colletti bianchi, sempre con le scarpe lucide e i capelli ben tagliati.
I loro fisici sono scolpiti, e se mangiano molto è solo per spendere bene i loro cospicui buoni pasto.
Non lavorano per vivere, perciò non è lontano dal vero il dire che vivono per lavorare: più probabilmente, vivono per il guadagno che viene dal lavoro e non si limita al denaro.
Il loro guadagno sta nel successo, sta nell’essere nel giro giusto, sta nel sentirsi accettati dagli altri – altri che non sono veramente interessati ad accettare o interessarsi a loro, e la cosa è reciproca.

Eppure nessuno di loro, sotto sotto, è come vuole sembrare.
Sono sempre stati come noi, e tolto l’abito alla moda e lo sguardo da persona di successo, quando sono soli nel loro cesso, loro si rivelano per come sono.
Loro diventano come noi.
Loro sono fragili, hanno incertezze sul loro futuro, spese che non tornano (poco cambia che siano spese dovute ai loro bisogni essenziali o ai loro vizi), ma non hanno la vertigine della precarietà che abbiamo noi, quando la abbiamo.
Perché, in fondo, anche noi ce la passiamo bene più di qualche volta.
No, non stiamo con le pezze al culo, e le difficoltà ci sono ma si affrontano – loro, spesso, pagano altri per affrontarle al posto loro, pagano case di cura per i genitori anziani, tate per i loro figli, domestiche per pulire il cesso.

Sono diventati incapaci di amare soltanto per non soffrire, per smettere di giudicarsi, per non sentirsi in colpa né vedere le proprie mancanze. Chi li smerda, per loro, è morto.
Noi, spesso, ci giustifichiamo, neghiamo l’evidenza, ma conosciamo i nostri limiti.
Siamo sbagliati, peccatori, infami, traditori, ma sappiamo chiedere perdono e perdonare, a volte persino amare.
Loro, purtroppo, sanno giudicare gli altri, sempre con due pesi e due misure, e quella che provano per sé stessi non è più indulgenza o vergogna ma solo una strana, stagnante apatia.

Hanno passato una vita a tagliare, smussare e comprimere sé stessi, pur di entrare in quelle scatole che altri hanno confezionato per loro.
E poi vogliono fare lo stesso con noi, troppo eccessivi, troppo esuberanti, troppo abbondanti.
Ci costringono a essere più piccoli, più falsi, più contenuti, con la sottile minaccia di toglierci ogni confidenza e con la promessa di rimanere dei falliti.

Noi, però, vediamo il bicchiere mezzo pieno. In ogni fallimento, noi vediamo un’opportunità.
E loro, tutti impostati, con le giuste maniere, i dovuti modi, la loro simbolica immobilità, la loro concreta incapacità di agire, ciechi, ci guardano dall’alto come statue su un piedistallo.

Noi veniamo da ogni parte, da ogni credo e ogni tradizione, ma siamo tutti consapevoli che dalla morte può nascere la vita.
Loro si fermeranno solo sotto la loro splendida, scintillante, monumentale lapide.

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E a me che cosa resta?

Poeta, musicista, pittore, fotografo, e poi tante altre cose ancora.

Possibile che non vi rendiate conto di quanto io sia interessante?

Eppure avete visto, e lo ripeto: poeta, musicista, pittore, fotografo, e chissà…

E poi che poeta, un funambolo della metrica…

E che musica, eclettico a dir poco, e polistrumentista.

E il tratto, e la pennellata, segni inconfondibili del mio innato talento, e che dire del modo leggiadro e discreto con cui il mio indice affossa il pulsante di scatto e… Click!

E ancora mi ignorate, mi parlate come se fossi come voi, e io sono magno nella mia artisticità.

Come osate? Come dite? Lo sapete! Mi conoscete!

Dite che scrivo come un qualunque poeta naif, e che improvviso in ogni frangente e in ogni genere artistico.

Il fatto di saper suonare poco molti strumenti non fa di me un musicista.

Solo gli scemi, poi, dipingono e si vergognano.

Meglio mettere la testa nella sabbia, e loro sapranno comunque, ma ignoreranno che tutto ciò lo faccio per loro.

E a me? A me cosa ne resta?

Forse solo il piacere nel fare arte, di mettermi da parte.