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Approcci all’arte

Una volta suonavo la chitarra: spesso durante le vacanze avevo la chitarra in mano durante le uscite con gli amici, durante le gite o le tratte sul pullman – ero quello che suonava per fare cantare gli altri, oppure quello che si perdeva tra gli accordi in un angolino del salone o steso su un prato mentre la vita accadeva intorno a lui.

Ho scoperto poi, per caso, che mi interessa molto la musica elettronica, nel senso di musica prodotta con strumenti elettronici e computer.
Quando iniziai a registrare, in sordina, le prime tracce sul mio PC fu per emulare un ragazzo della mia compagnia dell’epoca che, un pomeriggio a casa sua, mi aveva fatto sentire qualche pezzo strumentale registrato da lui, prevalentemente con una chitarra acustica amplificata e con la pianola del fratello.
Tornato a casa tentai di registrare anche io ma, con sorpresa, mi accorsi di non saper cosa suonare.
Improvvisai qualcosa, poi aggiunsi qualche effetto a caso, provando con riverbero, delay e fuzz. L’impressione iniziale fu tale da darmi l’input per proseguire, nella mia ignoranza, con altre registrazioni.

Arrivai negli anni al punto di abbandonare quasi del tutto la chitarra, preferendo un software DAW e un controller midi, oppure un sampler o un synth con sequencer.
In questi giorni, continuo a registrare tracce che definisco sperimentali anche se spesso sono di una banalità disarmante, a causa della mia scarsa conoscenza accademica in ambito musicale.

Riflettendo tra me e me mentre svuotavo e riempivo di nuovo la lavastoviglie, sono arrivato alla conclusione che per ogni artista, musicista o pittore o altro, sono possibili molteplici approcci, anche a seconda delle proprie convinzioni, della propria motivazione e del proprio vissuto, oltre che del messaggio che si vuole trasmettere con la propria produzione artistica.
Gli approcci principali, secondo me, sono due – tra i più scelti in assoluto, o comunque tra i più “pubblicizzati”: un approccio “conservatore” e un approccio “progressista”.
Capiamoci subito: se nell’Ottocento l’Accademia di Belle Arti di Parigi era conservatrice e gli Impressionisti erano progressisti, oggi non può essere così. Oggi nella cultura comune è progressista chi vuole bruciare tutto ciò che è stato fatto nel passato per stabilire una nuova affermazione dell’umanità nel totale rinnovamento delle convenzioni sociali, ambientali, ideologiche nonché tecnologiche ed economiche, mentre conservatore è chiunque abbia riserve in merito al superamento di una o più convenzioni pregresse.
Nell’arte non può essere così – così come non è a mio avviso positivo nemmeno in altri ambiti: un’arte conservatrice si pone in una tradizione, rispetta determinate regole che vengono semplicemente seguite nella realizzazione di un’opera, come standard a cui “appoggiarsi” anche per semplicità. L’utilizzo di manuali, l’applicazione di teorie e teoremi, l’iper-fedeltà ad una linea di pensiero anche in modo estremamente superficiale è al contempo punto di forza e di grande debolezza. Le opere possono essere di grande impatto e bellezza, così come possono sembrare tutte uguali e di grande banalità.
Faccio un esempio pratico: prima dell’Impressionismo, l’arte pittorica dai canoni neoclassici era reputata di grande bellezza e perfezione; con l’Impressionismo tale bellezza viene molto relativizzata mentre vengono mosse critiche prima all’irrealismo delle forme ideali rappresentate dai pittori accademici, quindi viene reputata noiosa e priva di spunti interessanti, buona solo a decorare le case dei ricchi.
L’arte dei “rifiutati”, come l’arte impressionista o l’art brut, è stata vista prima come arte sbagliata, poi come arte di grande interesse per l’eterogeneità dei messaggi che gli artisti volevano trasmettere e per la varietà e la fantasia nell’utilizzo delle tecniche e delle forme di soggetti concreti (paesaggi, ritratti, nature morte) o astratti.
A voler approfondire, è evidente che l’arte conservatrice resta di grande valore, perché volendo studiare le scelte e la tecnica di ogni artista, per un solo quadro ci potrebbe essere lavoro per settimane o mesi. Lo stesso vale per l’arte progressista, che non seguendo una sola regola scritta, ne crea infinite, per ogni variazione di forma e di tema possibile nello spazio e nel tempo.

Certamente a prima vista l’arte conservatrice sembra meno interessante e meno “fresca” di quella progressista, ma siamo già arrivati al punto, forse, in cui quasi tutto ciò che si poteva fare è già stato fatto, almeno coi mezzi a nostra disposizione oggi. Ci troviamo quindi in un’epoca storica in cui i dj sono artisti, in cui gli artisti visuali “remixano” clip e visual 3D per creare nuove rappresentazioni grafiche, in cui gli artisti contemporanei sono citati da artisti di estrazione accademica nella creazione di opere ibride.
Di sicuro anche qui ci sarebbe da discutere per ore sulla qualità, sul valore e sulla creatività di artisti e opere.

Quando io ho iniziato a sperimentare con la musica elettrificata prima ed elettronica poi ho sempre e solo scelto un approccio diverso (approccio progressista) a quello che mi era stato insegnato (approccio conservatore).
Avrei potuto decidere di provare a fare musica in modo casuale, sfruttando il caos e magari cercando di suonare in giro pur di farmi un nome in un ambiente legato alla musica industrial, punk o noise (approccio MOLTO progressista, alternativo, anarchico, antagonista) oppure provare a mettermi in un giro tale da finire in qualche audizione per talent più o meno famosi (approccio mariadefilippico/amadeusiano).
Ho scelto di provare con l’approccio più divertente, più educativo per me, e ciò mi ha permesso di approdare anche nell’ascolto a generi musicali che non avrei mai apprezzato né ascoltato prima.

Non che la musica suonata con le chitarre nel loro approccio “rock” o “folk” mi non mi piaccia più, solo che ora a me questa musica dà poco.
La apprezzo certamente, ma sono più contento nel registrare la colonna sonora del mio filmino delle vacanze con un sintetizzatore FM e poi distribuire lo stesso brano in Creative Commons su internet, piuttosto che nel restare in un angolino o in mezzo ai miei amici a strimpellare Ligabue o gli 883.
Questa cosa molta gente che conosco non la capisce o la ignora.

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Pensieri e note Poesia

Tornare a scrivere

Viaggiare è una fuga, giocare è nascondersi
Mangiare è coprire una fossa
Sono anni che scrivo
Con un mood negativo

La verità sta dietro ai miei occhi
Cerco di vederla, e non riuscirò mai
Proverò di tanto in tanto ad ascoltarmi
Per vedere se il punto è proprio questo

Cercherò di scrivere a flusso
Per vedere se la penna inganna la mente
E la mente a sua volta il subconscio
Riempiendo pagine vuote

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Ultreia et Suseia

Buongiorno signore, Come sta?
Non ci conosciamo, io abito nel suo quartiere da quando sono nato, l’ho vista in giro da quando ero piccolo e vedevo che accompagnava suo figlio alla mia stessa scuola elementare. A occhio e croce doveva avere l’età che io ho oggi.

Non l’ho mai salutata prima, anche se so in che casa abita e che lavoro fa.
La saluto solo perché ci incrociamo ora, durante una camminata tardo pomeridiana in questa domenica di fine gennaio, mentre il sole scende e la pianura padana sembra meno apatica e infernale.
Sì, ho detto infernale, perché per me l’inferno non é il posto caldo e affollato che tutti immaginano, ma é più simile al buco gelido e di solitudine del Lucifero dantesco.
Un inferno di abbandono, in cui però non c’é la solita nebbia a coprire le nostra fragile natura umana del cazzo.

Oggi in questa camminata lei é stata l’unica persona che ho incontrato.
No, non era l’unica persona uscita di casa per fare una passeggiata sull’argine. Ma tutti erano lì a camminare senza una meta che non fosse la fine o l’inizio dell’argine, come se non ci fosse da guardarsi intorno e da pensare alla propria vita rispetto alla natura che ancora qui sopravvive ai margini della città.
Camminano sull’argine quando non c’é nulla da dover arginare, non pensano alle lacrime e alla fatica di chi quell’argine lo ha costruito dopo che l’ultima piena del fiume si era portata via tutto, nella speranza che quello che avevano patito loro non lo dovessero patire le generazioni dei loro figli e nipoti, e che in effetti noi non abbiamo patito.
Eppure, tra tutta questa gente, lei è stata l’unica persona che ho incontrato, con cui ho scambiato un saluto.

Io sono qui a camminare come tutte queste persone, ma per me l’argine é la meta.
Alzo gli occhi, mi guardo intorno, come si fa quando si arriva sulla cima di un monte, dando le spalle al tramonto di oggi e già pensando all’alba di domani.
La saluto, signore, come si saluta chi si incontra in quota, non solo per cortesia, ma perché sia io che lei stiamo facendo lo stesso cammino.
La saluto come si salutano i pellegrini che si incontrano sul Cammino di Santiago.

Non sarà un cammino lungo ma è l’inizio di un ritorno.
L’inizio, forse, di un cambiamento, e ogni tratto di asfalto è tempestato dei ricordi.

“Andiamo oltre” – “Andiamo più in alto”, senza bastone alla mano ma con i nostri pensieri nella bisaccia.

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Sceglierei la lentezza, ma…

Sono veloce a dimenticare, a passare, a scegliere le vie brevi e meno faticose.
Il piacere nella lentezza, nella fatica, nell’attesa io non lo conosco.

Fumo lento di pipa, cucina lenta, lento mangiare, una crescita lenta e difficoltosa, una scrittura lenta e ordinata, preparazione lenta, comporre lentamente.
Tutto ciò lo fuggo come se fosse il male, di istinto, di impulso corro dalla parte opposta.

Eppure so che nella lentezza è il gusto, nella lentezza è il metodo, dove nelle sfumature sta la bellezza, nella pazienza la speranza.

Sabati e domeniche ad annoiarsi, a guardare fuori le nuvole grigie che si spostano e le foglie arancioni che cadono.
Quante parole scritte, quante scelte fatte, quante idee trasformate in bozze di realtà, in quelle giornate uggiose.

La preghiera può essere dialogo lento con il divino, oppure un soliloquio, un rimuginio o una ruminazione.
Un amore o un’amicizia possono nascere e crescere solo se c’è ascolto, pazienza, ma soprattutto una disposizione alla lentezza.
La lentezza è requisito della fede e della fiducia.

Ogni giorno io sceglierei la lentezza

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Leggere è noioso

Lo so, sembra una frase da ragazzino ribelle che vuole passare tutto il tempo davanti ai videogiochi.
Il fatto è che, per me, leggere è proprio noioso.

Non fraintendermi, io leggo abbastanza: il mio problema è che non ho pazienza.
Sono abituato ai ritmi veloci di quegli stessi videogiochi che adoravo quando ero un ragazzino ribelle.
Sono abituato all’intensità dei film thriller e drammatici, alla crudezza dei film horror e alla morbosità che accomuna tutte le produzioni degli ultimi anni.
Sono abituato, ed è difficile andare contro quello che un’abitudine ti porta ad essere: pigro.

La pigrizia è la pricipale nemica della gioia, per lo meno nel mio caso.
Spesso l’essere sempre “spompo”, senza stimoli, mi fa venire voglia di trovare stimoli ovunque, anche dove e quando non conviene cercarli.
Quando la pigrizia sopraggiunge, la noia tinge di grigio tutte le cose. E’ molto peggio della nebbia, perché almeno la nebbia nei quadri di Monet aveva una propria raffinata bellezza.
La noia di cui parlo non è malinconia, ma è rabbia. E’ insoddisfazione. E’ un seme di cattiveria e indisposizione verso la vita e gli altri.
E’ un lento calare preso nelle sabbie mobili di una tenue esistenza, e allo stesso tempo è un miraggio.

Basta poco: è sufficiente affrontare questa noia per capire quanto essa sia effimera, per fortuna!
Di solito, quando mi accorgo di essere sopraffatto, prendo un paio di scarpe comode e le chiavi della macchina, quindi inizio a girare per la campagna.
Che bella, la campagna. Mi fa capire il contrario di questa noia non è il “fare qualcosa”, ma è l’essere capace di attendere.
La differenza, alla fine, è la stessa che c’è tra la speranza e la disperazione.

Alla fine, a me piace leggere.
Anche se è noioso, non è sempre facile e spesso è meno divertente che giocare ad un videogioco o guardare un film o una serie.
Ci vuole parecchio impegno, bisogna sviluppare una minima ritualità e, soprattutto, aprirsi ad esso: mentre lo leggi, è il libro che scrive la sua storia dentro di te.

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EL

La tua morte ha cambiato tutto.
Nulla é come prima.
La consapevolezza di essere vivi, che il “cogito ergo sum” del mondo di oggi é un’illusione, che la solitudine non é tossica quanto la paura di essa.
Non mi sento a posto, non mi son più sentito a posto.
Sempre più in difficoltà a vivere in un mondo che mette la realizzazione al primo posto, il meglio davanti al bene, il di più davanti all’essenzialità.
Io penso molto, quando ho paura. E ora ho quasi paura di pensare molto. Vorrei essere libero di vivere come voglio, ma poi me ne sento in colpa.
Ho paura anche di perdere la testa: a volte a fare la cosa sbagliata mi sembra di fare la cosa più giusta e naturale.

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Per carità

Una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza… una meta.
Viaggiare, viaggiare, viaggiare.
Una vita leggera, come una foglia nel vento, oppure veloce come un piccolo pesce che sa nascondersi tra i coralli, a riparo dagli squali.
Una vita di zucchero, senza zucchero, col giusto zucchero, non nauseante, non amara, non aspra, giusto una zolletta nell’immenso sorso di tè nero che è la vita.

E’ a questo che dovrei ambire?
E’ a questo che ambisco.
E’ a questo che dovrei ambire.
Eppure non posso.

Non posso più ambire ad una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza una meta, senza peso, senza sapore.
Non posso più accontentarmi di cose così alte, di cose così grandi, così ricche, così maestose come un palazzo regale, un tesoro antico o la Luna.

Ciò a cui il mio cuore ambisce è lo sguardo del vecchio.
Ciò a cui la mia mente ambisce è la mano del malato.
Ciò a cui la mia vita ambisce è il sorriso di un bambino.
E io non sarò mai così grande, ma ho una grande speranza.

Una speranza grande come quella solitudine, quella sofferenza, quella debolezza.
La speranza nella cosa che tutto copre, tutto sopporta. tutto crede,

E’ quella cosa che smuove, che affida, che entusiasma, che guarisce, che scioglie, che guida, che pondera, che dà sapore a questa vita così sterile e fertile.

Una vita che serva.

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Pesi e misure

Non tutto ciò che è vecchio è buono:
qualcosa marcisce col tempo,
qualcosa diventa lento
e qualcosa diventa un peso.

Si cambia un po’ tutti
di peso e di misure,
più grasso, più largo,
più basso, più secco:
ad ognuno il suo diventar vecchio.

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Di nuovo qui

Sono di nuovo qui, dove mi trovavo già tanto tempo fa.

Ho tentato di tornare qui altre volte, in questi due anni, e non ci sono riuscito.
Le rare volte che sono riuscito a forzare la porta, mi sentivo male, come un ladro che forza la porta di una casa altrui, e me ne sono andato senza entrare.
Non era quello il momento, non era quello il modo, non era quella la via.
Questo posto, però, è casa mia. Perché mi sentivo così?

C’è voluta una vertebra rotta per tornare. Anzi, non solo, ci sono voluti anche 2 mesi abbondanti di noia mortale, in cui ho perso tutta la dolcezza e la voglia di tornare, mi sono allontanato da me, da questa fottuta casa, da questa strada che sto percorrendo senza arrivare mai.

Ma tu mi chiami qui e forse è la mia intera esistenza che mi porta qui.
Forse chiami il mio cuore come il profumo di un fiore attira le api.
E’ qui che cerco il nutrimento, è qui che avviene il miracolo della trasmigrazione, qui dove perdo la mia speranza, qui dove mi trovo misero, qui dove cerco la consolazione nella fine.

Qui tu mi vieni a trovare.
Tu mi vieni a cercare, tu mi vieni a sollevare, tu mi vieni a parlare, e il mio cuore vuole tanto ascoltarti, è terra secca che attende l’acqua.

A chi non crede che qui ci sia la propria casa, a chi pensa che l’accoglienza qui nasconda una fregatura o che sia dovuta al perpetrare un buonismo velenoso, non sarà mai chiaro.
A loro, che non sentono la propria sete, che non la considerano, e bevono coca-cola e si alcolizzano invece di cercare l’acqua, non sarà mai chiaro.
A me, purtroppo, ora lo è.

Purtroppo. Perché per me non vorrei altro che starmene in pace a riempire il mio vuoto con le solite cazzate, sorseggiando il mio calice di veleno addolcito davanti ad un videogioco e aspettando la fine.
Però tu, cazzo, tu ci sei.
Qui, ora, ci sei, e non posso coprirmi ancora gli occhi o girarmi dall’altra parte, perché tu con me non lo hai fatto.

Sono di nuovo qui, dove mi sono trovato tanto tempo fa.
E tu sei di nuovo qui, dove ti cerco da sempre.
Domani chissà dove sarò.

“In breve, Dio è la fonte di vita per l’uomo e gli dà la forza di fiorire nell’amore e nella fedeltà. Lontano da Dio l’uomo non è che una terra arida e senza acqua, votata alla morte; egli quindi sospira verso Dio come la cerva anela all’acqua viva. Me se Dio è con lui, egli diventa come un giardino che possiede in sé la fonte stessa che lo fa vivere”
(M.-E. Boismard)

 

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Una storia fatta breve

Cammino per i cimiteri per sentirmi vivo.