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Borghesi

Borghesi.
Quelli cresciuti dalla nonna si lamentano. Gli orfani da trent’anni non crescono. La sera il buio fa paura, senza uno schermo che illumini l’oscurità.
Abbiamo rotto. Lo so.
Noi, bambini piccoli, barbuti e tatuati, che non si sa mai che si muoia davvero.
Noi, abbiamo tutto e vogliamo di più, perché non basta una sola cena per dire di esser sazi davvero.
Noi, silenziosi e muti, con un cuore che urla disperato nella prigione di costole e respiri affannati in cui lo abbiamo rinchiuso.

Noi, soli senza pianeti.
Noi, soli.
Noi soli.

“Non solo voi”, qualcuno dirà: “anche io sono solo”.

Perché é così difficile non voler essere soli?
Perché é così difficile non sentirsi a posto?
Perché é così dura accettare di essere amati proprio così come siamo?

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Carenze d’affetto

Le “carenze d’affetto” le capisco: etichettiamo così la ricerca affannata di attenzione, l’ansia, l’agitazione, la tristezza, gli sbalzi d’umore, le seghe mentali sul nostro aspetto, i modi inconsapevoli di porci agli altri… Insomma, un sacco di sintomi che delineano una sola sindrome.
La “carenza d’affetto” non si cura con le medicine, che bastano solo a placarne i sintomi.

Io le capisco queste carenze d’affetto.
Le ho vissute a lungo, ne porto i segni ancora adesso.

Non basta un vestito, una pettinatura, una sigaretta, un tatuaggio, un’attitudine per ingannare gli occhi di chi è davvero interessato a noi.
C’é qualcosa che non va? Loro lo vedono, palesemente.
Evadiamo, scappiamo da coloro che sappiamo che ci conoscono, perché vedono ciò che fatichiamo tanto a nascondere, vedono oltre l’apparenza.

Eppure basterebbe poco per uscire da questo stato di “carenze d’affetto”.
Come ogni paura, esse esistono perché noi crediamo che esistano. Nulla di più.
Se noi iniziamo davvero a parlare di come stiamo, mettendo da parte paure, maschere e pregiudizi, allora inizieremo a scavare, vangare, girare le zolle, là dove qualcun altro potrà seminare. Potrà, forse, crescere qualcosa di buono, dove prima era terra arida.

Le persone non ci “servono”, come le dosi di eroina per i tossicodipendenti.
Non ci “servono”, per non sentirci soli, anche se noi spesso crediamo questo.
Non ci serve essere accettati dagli altri, casomai il contrario: ma noi, gli altri, li accettiamo?

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Overeaters Anonymous, ovvero l’infinita tristezza

Quante volte ci accontentiamo di avere accanto qualcuno che ci dia attenzione, che ci consideri forte, bello, bravo, intelligente, sensibile, profondo e tutte quelle cose che pensiamo di non essere?

Ci svendiamo alla prima attenzione donata, abbandonando la nostra spina dorsale allo scheletro di qualcun altro.
Questo qualcun altro poi potrebbe andarsene, lasciandoci soli e senza spina dorsale, e questo non per sua “colpa”, ma perché non vede in noi quello che noi cerchiamo in lui.

Siamo ciechi.
Non vediamo persone, ma alberi che si muovono. Alberi da cui cogliere frutti per sfamarci, frutti che crediamo riempire il nostro vuoto che abbiam dentro, vuoto che non può essere riempito da qualcosa o qualcuno.
Ci crediamo più furbi di chi ci ha messo dentro quel senso di insoddisfazione che ci spinge alla ricerca, ma piuttosto che ammettere di non saper vedere ciò di cui abbiamo bisogno ci accontentiamo delle prime persone, delle prime sensazioni, delle prime parole che sentiamo.
Ci accontentiamo di un sorso d’acqua ogni tanto, ma non vogliamo andare a dissetarci alla fonte per paura di lasciare le nostre misere sicurezze.

Abbiamo bisogno di un chirurgo che ci tolga la cataratta dagli occhi, di un oculista vero che ci faccia finalmente vedere, e non di un oculista ciarlatano che ci faccia solo guardare altrove.
Qualcuno che ci conosca da quando siamo nati -o anche prima- e che sappia consolarci e perdonarci quando sbagliamo, che ci spieghi perché siamo schiavi di questa fame compulsiva, bulimia o anoressia del cuore, e che sappia dirci come rompere con essa.

Qualcuno ha il numero dell’ospedale giusto per noi?