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Pensieri e note

Per carità

Una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza… una meta.
Viaggiare, viaggiare, viaggiare.
Una vita leggera, come una foglia nel vento, oppure veloce come un piccolo pesce che sa nascondersi tra i coralli, a riparo dagli squali.
Una vita di zucchero, senza zucchero, col giusto zucchero, non nauseante, non amara, non aspra, giusto una zolletta nell’immenso sorso di tè nero che è la vita.

E’ a questo che dovrei ambire?
E’ a questo che ambisco.
E’ a questo che dovrei ambire.
Eppure non posso.

Non posso più ambire ad una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza una meta, senza peso, senza sapore.
Non posso più accontentarmi di cose così alte, di cose così grandi, così ricche, così maestose come un palazzo regale, un tesoro antico o la Luna.

Ciò a cui il mio cuore ambisce è lo sguardo del vecchio.
Ciò a cui la mia mente ambisce è la mano del malato.
Ciò a cui la mia vita ambisce è il sorriso di un bambino.
E io non sarò mai così grande, ma ho una grande speranza.

Una speranza grande come quella solitudine, quella sofferenza, quella debolezza.
La speranza nella cosa che tutto copre, tutto sopporta. tutto crede,

E’ quella cosa che smuove, che affida, che entusiasma, che guarisce, che scioglie, che guida, che pondera, che dà sapore a questa vita così sterile e fertile.

Una vita che serva.

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A un’amica tradita

Vorrei rivedere tutto quanto,
Tutto quello che ti ho detto e che ti ho fatto,
Tutto quello che ho nascosto dietro a un gesto,
Tutto ciò che ho perso con quel passo falso

Vorrei rivedere il tuo sguardo
innamorato, quando mi credevi giusto
E poi giusto, ma rispetto a che modello,
A una famiglia che non hai mai voluto?

Ho sbagliato, certo, e se tornassi indietro
Forse solo il tradimento vorrei evitare.
Perché dare un colpo ad un vaso già crepato
Se vedi che manca una goccia per traboccare?

Vorrei rivedere tutto quanto,
Ma non per evitare tutto ciò che ho fatto,
Ma per non fingermi l’angelo che cercavi
E dirti subito che sono un poveraccio

Vorrei che rivedessi il mio sguardo,
Di quando ho fatto uscire il mio peggio
Di quando ho ucciso una fiducia con la beffa
E sono rimasto beffato proprio io

Ho sbagliato, certo, ma se tornassi indietro
Forse il resto non lo vorrei cambiare
Perché perderti dopo che ti ho voluta
Mi ha aiutato a non voler possedere

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Ohibò

Tienimi comunque
Tienimi comunque
Che sennò mi perdo
Come faccio sempre

Tienimi ti prego
Tienimi comunque
Che sennò mi sento
Come senza un peso

Senza peso per te, per me
Senza peso per il mondo
Senza un peso per gli altri
A chi importerò?

E mi meraviglio sempre
Di come non ti scrivo mai
Di come il tempo passa
Stringendoti le mani
Ma cercando altro
E guardando altrove,
Lontano dalla verità
Ma tu tienimi comunque

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La pace

Non sentire il bisogno
di alzarmi dal letto
e mettermi davanti a uno schermo

Non sentire la voglia
di prenderti in giro
e trattarti con ironia e scherno

E ci penso ogni ora del giorno
e talvolta la notte la sogno
é questa la pace che voglio

Non sentire la sete
di guardare le donne
come fossero bevande ghiacciate

Non dovere per forza
essere pessimista
e vedere le cose che mi son state donate

E ci penso ogni ora del giorno
e talvolta la notte la sogno
é questa la pace che voglio

Non avere paure
e fidarsi finalmente
delle impressioni della gente

Non sentire la spinta
di dire parole
per coprire un silenzio pungente

E ci penso ogni ora del giorno
e talvolta la notte la sogno
é questa la pace che voglio

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Unicità e realtà

E’ strano come i luoghi comuni e le idee divulgate dai media si infiltrino sottilmente nella nostra testolina, senza gran rumore.
Proprio come nei film storici, una rivoluzione è in atto – solo che stavolta, non parte dal basso della massa proletaria, ma da molto più in alto/basso (a seconda di come la vediamo).
Una rivoluzione atta a sovvertire l’ordine della normalità e della stranezza, del giusto e dello sbagliato e del caos.
Gli esponenti delle maggiori correnti di “pensiero” (ammesso che pensino davvero) mettono in dubbio tutto e il contrario di tutto con intelligenza luciferina, e il bello (si fa per dire) è che non sanno cosa stanno facendo, né le conseguenze di certi buonismi.
Quello da cui gli strateghi della rivoluzione sono partiti, molto tempo fa, è stato infrangere la certezza basilare su cui si basa la realtà, intesa come luogo, tempo, origine e meta, e quindi senso della vita umana: l’unicità.

Unicità significa, innanzitutto, essere unici, non essere soli.
Unicità significa essere diversi dagli altri, non “diversi” con le varie accezioni secondarie del termine, preso singolarmente.
Unicità significa essere indipendenti, non succubi di idee, progetti, favole, menzogne, condizionamenti; essere indipendenti, in fondo, significa quasi essere liberi, perché la libertà non è uno stato (“stato di indipendenza”), ma un’esperienza.
Unicità significa avere dei doni – doni che dovranno essere accolti, usati, riposti con cura e raramente sfoggiati con vanto, se non sia l’occasione a richiederlo; avere dei doni significa doversi fare delle domande serie su come possano essere sfruttati al meglio, per la mia gioia e per quella di chi mi sta intorno (parenti, amici, società), in modo che la gloria personale non sia vana-gloria.
Unicità significa, a volte, essere scelti: chi è scelto riceve diritti che non tutti hanno, ed è sempre per il vantaggio degli altri – se uno è assunto a un lavoro, è per il presunto bene dell’azienda, così chi è scelta per rappresentare la propria regione a un concorso di bellezza nazionale, così come chi è eletto come sindaco, per il bene del comune.

La verità (ammesso che si possa dire tale parola così poco politicamente corretta, perché così poco relativa – n.d.D.S.) è che la libertà non è vera libertà se non è assoluta; libertà anche di sbagliare, di scontare pene, di soffrire, di morire.

La libertà che abbiamo dalla nascita non è a 180°, ma a 360°: la metà del cerchio che vogliono nasconderci è quella che, secondo loro, è scomoda, di scandalo, marcia, falsa, malata, mortale.
Tentano di fermare un cancro tagliando l’arto malato, quando è da millenni che la metastasi si è diffusa ovunque.
Siamo liberi ma siamo destinati a campare in prigione. Siamo nati vivi, ma siamo malati terminali di morte sin dalla fecondazione.

L’unicità è ciò che cerchiamo, è ciò che intendiamo come corona della libertà, come quello che le dà compimento (“sono diverso dagli altri, quindi non devo pensarla come gli altri”).
Dimenticandosi che un certo ordine è stato tratto dal caos per puro amore, e non per mettere in riga e quindi in gabbia i poveri umani (cosa che invece ama sostenere il diavolo spesso nelle tentazioni che fa a me), tali persone sostengono di aver la ricetta pronta per un’equità che di equo ha solo il volume, la forma, e non la massa, la sostanza.
Oggi il mondo dice insistentemente che siamo tutti uguali, che dire il contrario non solo è discriminatorio (quando in realtà è la stessa natura che ci dona delle discriminanti), ma attacca addirittura la libertà degli individui. Esagerati.

Ovviamente, i capi della rivoluzione ci vorrebbero tutti fatti con lo stampino.

Se si togliessero il paraocchi dell’ideale, vedrebbero la realtà, vedrebbero la natura che va in una sola direzione, vedrebbero l’ambiente, la Terra, il cosmo che è perfetto e basato su pilastri semplici e fondamentali.
Vedrebbero, e non inciamperebbero in essi, ma vi costruirebbero sopra.
Loro scartano le testate d’angolo e costruiscono sulla sabbia, in epoca di tsunami, terremoti e alluvioni.

Non c’è bellezza in quei grandi progetti, troppo complicati e faticosi da realizzare: i castelli vanno bene di sabbia o per aria, qui vogliono miniappartamentini in villette a schiera – tutti ben incasellati.
Ma la Bellezza vera è dirompente, è un onda che si infrange sullo scoglio del nostro cuore, e che a lungo andare lo levigherà e lo renderà nulla, solo un fondale: è una fitta allo stomaco, fame incessante dopo aver banchettato di ogni ben di Dio.
Solo l’inseguire questo anelito profondo ci dà pace, e non perché è una falsa speranza, ma perché è l’unica speranza che vale la pena di inseguire, che dà senso a tutto il resto.

Una domanda, quindi: chi sei? Chi sono io? E, se c’è tempo, perché sono qui?
Il tuo cuore sa a chi rivolgerle queste domande, se la tua mente sa fare silenzio.
Si può vedere, sentire, toccare, vivere la propria unicità, il proprio tempo, la propria realtà.
Non sei qui di passaggio, ma non sei qui per restare: sei qui per essere, ora, qui.

Poi sì, passerai oltre, ma non ora, non qui.

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Close your eyes

Vorrei essere interessato.

Vacanza con gli amici,
stando sereno.

Immergermi nel dialogo,
nell’ascolto degli altri,
produrre nuovi oggetti della mia
futura nostalgia buona.

Ricordi e sospiri
per un bene passato,
desideri
per un bene futuro.

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Ritorno a casa

Una città morta, che sta svanendo.
Abitanti che sono già svaniti anch’essi, e che non se ne sono ancora accorti.
Un’altra rotonda.
Un’insegna al neon: 18.43.
Lo stesso neon, due secondi dopo: +08°C.
Lo stress dopo una giornata di lavoro.
Un buco nello stomaco.
Un pensiero accomodante, antidolorifico, per quel buco nello stomaco.
Una premessa che mi pari il culo.
Un pentimento per il mio pensiero vigliacco.
Il dubbio che forse sarebbe stato meglio essere un cattivo ragazzo.
Il mio presente che non é più leggero del mio passato, troppo poco burrascoso.
La nostalgia per il fiume a cui ho messo una diga.
Le mie mani piccole.
L’abbraccio caldo di mia madre.
Le mani grandi e sicure di mio padre.
Il campanello da suonare.
Le porte del 4 che si aprono.
La pioggia che mi bagna i capelli.
L’ombrello che ho nello zaino e che non voglio aprire.
Il raffreddore, che domani avrò.
I lampioni accesi al mio passaggio.
Le auto parcheggiate vicino al bingo.
Coppie apatiche che tornano all’auto.
I soldi corsi via.
La luna, che non c’é.
Cani che abbaiano.
Skate park vuoti.
Ceneri bagnate.
Luci accese in soffitta.
Le chiavi che sono nell’altra tasca.
L’iPod che ho paura che cada per terra.
Un respiro profondo.

Ritorno a casa.

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Overeaters Anonymous, ovvero l’infinita tristezza

Quante volte ci accontentiamo di avere accanto qualcuno che ci dia attenzione, che ci consideri forte, bello, bravo, intelligente, sensibile, profondo e tutte quelle cose che pensiamo di non essere?

Ci svendiamo alla prima attenzione donata, abbandonando la nostra spina dorsale allo scheletro di qualcun altro.
Questo qualcun altro poi potrebbe andarsene, lasciandoci soli e senza spina dorsale, e questo non per sua “colpa”, ma perché non vede in noi quello che noi cerchiamo in lui.

Siamo ciechi.
Non vediamo persone, ma alberi che si muovono. Alberi da cui cogliere frutti per sfamarci, frutti che crediamo riempire il nostro vuoto che abbiam dentro, vuoto che non può essere riempito da qualcosa o qualcuno.
Ci crediamo più furbi di chi ci ha messo dentro quel senso di insoddisfazione che ci spinge alla ricerca, ma piuttosto che ammettere di non saper vedere ciò di cui abbiamo bisogno ci accontentiamo delle prime persone, delle prime sensazioni, delle prime parole che sentiamo.
Ci accontentiamo di un sorso d’acqua ogni tanto, ma non vogliamo andare a dissetarci alla fonte per paura di lasciare le nostre misere sicurezze.

Abbiamo bisogno di un chirurgo che ci tolga la cataratta dagli occhi, di un oculista vero che ci faccia finalmente vedere, e non di un oculista ciarlatano che ci faccia solo guardare altrove.
Qualcuno che ci conosca da quando siamo nati -o anche prima- e che sappia consolarci e perdonarci quando sbagliamo, che ci spieghi perché siamo schiavi di questa fame compulsiva, bulimia o anoressia del cuore, e che sappia dirci come rompere con essa.

Qualcuno ha il numero dell’ospedale giusto per noi?

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Senza titolo (2010)

Ti senti rifiutata,
ma noi
non ti scartiamo.

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Il sognatore con le ruote

“Io… voglio parlare… cantare… comunicare… alla gente… quello che penso…”, mi dice Lombardo.
Ogni parola arriva alle mie orecchie come un frammento di una frase rotta.
“Voglio fare… una radio… mi aiuti?”

Lombardo ha diciannove anni, ma è ancora in quarta superiore.
I viaggi in America lo hanno rapito per un po’, ma ora inizia a migliorare.
Tra un anno e mezzo, se tutto và bene, uscirà da quella scuola e farà qualcosa che gli piace.
Glielo auguro, in questo momento, con tutto il cuore.

“Certo, con le web radio è tutto più facile”, gli rispondo, anche se faccio un po’ fatica a mentirgli, “potremmo anche farne una, ma poi? I contenuti? Le idee purtroppo mancano!”

Lombardo a tre anni è stato colpito da una tetraparesi che da allora lo costringe sulla sedia a rotelle.
Ha delle difficoltà a parlare: parla lentamente, a scatti, come un motoscafo che salta sulle onde del lago.
Non mi piace mentirgli, ma non potrebbe mai essere uno speaker. Ma sarebbe proprio una bella rivoluzione…

“A me… piace scrivere… poesie… Mi dai… una mano… a trovare… le rime?”

Lombardo è molto intelligente.
È simpatico… Anzi, a volte fa proprio il deficente!
È un sognatore, un po’ come me. Deve essere per questo che io lo prendo sul serio.
D’altronde nessuno ti prende sul serio, se sei un sognatore.
O perlomeno se non hai una parlata veloce come il tuo passo.
O una laurea.

“Certo, sai che anche a me piace scrivere? Raccontare storie, però!”, e sono sincero, stavolta, “Mi piace raccontare storie che possono tranquillamente essere vere…”

Lombardo mi chiede spesso un aiuto per fare funzionare un computer che non và mai. E io, in realtà, dopo anni di richieste e occasioni, non so neanche come sia fatto il suo computer.
Anche questa volta so che per questioni di tempo, voglia e impegni non lo aiuterò mai a trovare quelle rime che cerca, quelle rime che faranno suonare meglio anche la ritmica lacustre delle sue parole.
Però mi piacerebbe, davvero.

“Voglio essere… qualcuno… per gli altri…”

Lombardo guarda i ragazzini che giocano a pallone e che, ogni tanto, colpiscono le ruote della sua sedia per sbaglio.
Vorrebbe che i ragazzini gliela dessero sui piedi quella palla, e lui finalmente si alzerebbe e gli farebbe vedere che numeri che sa fare, potrebbe sfidare anche Ibrahimovic o Del Piero!
Invece i ragazzini gli colpiscono le ruote, con lo stesso sconforto di quando calci la palla forte, contro un bidone traballante, pieno di rifiuti, e speri che non cada.
“Scusa!” “Trecento punti se lo beccavi in testa!”

Lombardo ha una sedia a rotelle e un’anima.
Lombardo ha un handicap e una dignità.
Lombardo ha bisogno di attenzione e di rispetto.
Lombardo sà che non vivrà mai come gli altri, sempre ammesso che gli altri stiano vivendo.

Lombardo vive con tutte le sue forze.
Anche in un’uggiosa domenica di ottobre come questa.