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Ohibò

Tienimi comunque
Tienimi comunque
Che sennò mi perdo
Come faccio sempre

Tienimi ti prego
Tienimi comunque
Che sennò mi sento
Come senza un peso

Senza peso per te, per me
Senza peso per il mondo
Senza un peso per gli altri
A chi importerò?

E mi meraviglio sempre
Di come non ti scrivo mai
Di come il tempo passa
Stringendoti le mani
Ma cercando altro
E guardando altrove,
Lontano dalla verità
Ma tu tienimi comunque

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Carenze d’affetto

Le “carenze d’affetto” le capisco: etichettiamo così la ricerca affannata di attenzione, l’ansia, l’agitazione, la tristezza, gli sbalzi d’umore, le seghe mentali sul nostro aspetto, i modi inconsapevoli di porci agli altri… Insomma, un sacco di sintomi che delineano una sola sindrome.
La “carenza d’affetto” non si cura con le medicine, che bastano solo a placarne i sintomi.

Io le capisco queste carenze d’affetto.
Le ho vissute a lungo, ne porto i segni ancora adesso.

Non basta un vestito, una pettinatura, una sigaretta, un tatuaggio, un’attitudine per ingannare gli occhi di chi è davvero interessato a noi.
C’é qualcosa che non va? Loro lo vedono, palesemente.
Evadiamo, scappiamo da coloro che sappiamo che ci conoscono, perché vedono ciò che fatichiamo tanto a nascondere, vedono oltre l’apparenza.

Eppure basterebbe poco per uscire da questo stato di “carenze d’affetto”.
Come ogni paura, esse esistono perché noi crediamo che esistano. Nulla di più.
Se noi iniziamo davvero a parlare di come stiamo, mettendo da parte paure, maschere e pregiudizi, allora inizieremo a scavare, vangare, girare le zolle, là dove qualcun altro potrà seminare. Potrà, forse, crescere qualcosa di buono, dove prima era terra arida.

Le persone non ci “servono”, come le dosi di eroina per i tossicodipendenti.
Non ci “servono”, per non sentirci soli, anche se noi spesso crediamo questo.
Non ci serve essere accettati dagli altri, casomai il contrario: ma noi, gli altri, li accettiamo?

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Tre metri

Lo so che siamo tutti chiusi fuori.
Siamo tutti così lontani dalla tua testa in fiamme, perché mai dovresti ascoltarci?
Forse non ti ricordi neanche più chi siamo.
Dani, ascoltaci, ti amiamo.

Sembri un astronauta, con tutti quei tubi, e quelle macchine sembrano l’astronave con cui, da piccolo, dicevi che ci avresti fotografati tutti, là in alto, dalla Luna.

Invece ora siamo noi quelli troppo lontani per poterti abbracciare, e stiamo pregando che tu possa restare ancora un po’ su questa terra, con noi.

Forse tra qualche ora ti risveglierai, spaccherai a cazzotti e lacrime quella campana di plexiglass che ci divide, e sentirai le nostre grida di gioia.
Forse tornerai a camminare, a parlare, a ridere con noi.
Forse capirai con questa esperienza che un’amicizia come la nostra ha un sapore incredibile, che né la carne né lo spirito potranno mai farti gustare. E sa far rivivere i morti.

Forse, allora, sarà vero.
Forse che, a volte, è una caduta che ti porta in alto?