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Pensieri e note

Ragazza-occhi-di-corteccia

Ricordo una ragazza sulla soglia
che mi guardava coi suoi occhi di corteccia,
e nella foresta dei suoi occhi io vedevo
la palude della sua mente stanca

Non ho chiesto mai la sua mano, né il suo nome
ma  sono certo che, anche se è lontana,
ha trovato la pienezza che cercava:
la sua vita ora ha un senso da spezzata

E mi manca la sua voce e la presenza,
e lo sguardo che si nasconde, timido, anche ora,
quando passo lì davanti a quella porta –
non è morta! nel mio cuore non è morta

Il suo canto è terminato con la gloria
come un angelo che si spegne nella luce
non l’ho mai conosciuta come donna
ma l’ho sempre cullata in questo amore

Ora dormirò, e chiuderò la finestra
solo buio, e nient’altro resta –
solo buio, e questa nostalgia
con l’aurora anche io volerò via

 

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Pensieri e note

Luci

Aspettiamo il Natale:
luminarie,
luci spente,
buie, cupe.

Si accendono
ma il buio resta intorno.
Cinismo e autocommiserazione,
per comprarsi una vana consolazione.

Ma una luce nuova
si sta per accendere:
luce di festa,
di vita, di bellezza.

E’ la festa,
vera festa,
in cui i nostri cuori
anelano alla libertà
come a un ricordo lontano.

E’ la festa,
perché oggi
è la pienezza che incontra l’uomo vuoto,
è la gioia che viene dall’uomo triste,
è la semplicità che parla all’uomo paranoico e nevrotico.

Non sono le vecchie otto candele,
ma una grande luce,
perché è compiuto
il desiderio grande del nostro cuore,
in qualche modo che non ci aspettiamo.

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Sogno d’un mattino di pieno autunno

Sogno.
Questa notte sono ciò che sogno
(ciò che sono nel sonno),
sogno nel sogno.

Sono sveglio.
“Non c’è più pane”,
lo vado a comprare
con la canottiera di mia nonna,
panico,
stop.

Sono sveglio,
“Non c’è più pane”,
pedalo sul raccordo,
con una polo proprio uguale a quella di mio fratello,
in bici verso un supermercato che
– ricordo –
non c’è,
attraversando bar in bicicletta,
tra scaffali di burri e formaggi,
ricordo che

Mi sveglio
perché c’è un avvoltoio che gracchia sul comodino.
Parto, anche oggi.

Scrivo,
perché il sogno
sa essere (legittimamente)
la naturale sinestesia di cui ho bisogno.

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Il cieco di Betsaida

Che cosa c’è da vedere?
Che c’è più di bello da cercare?
E’ forse intorno a me che è tutto buio
o sono io che non so più guardare?

Vedo gli uomini
come alberi che camminano,
alberi in cui incidere il mio nome,
alberi da abbattere per farmi calore,
alberi da lavorare
per farmi un posto comodo dove sedere.

Vedo gli uomini
come alberi che vivono,
alberi che muoiono
alberi che cadono e che si rialzano,
alberi che soffrono,
alberi che gioiscono.

Vedo gli uomini,
o forse non li vedo affatto,
li osservo accendersi e spegnersi
come un incendio, da lontano,
e non provo nulla che non si addica
ad un pezzo di legno da usare.

E tu mi vedi,
fermo sul ciglio della mia strada,
con due o tre alberi accanto,
che mi spingono e mi tirano,
dove io non voglio andare:
mi chiedo se mi vorrai sanare.