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Signore non sono capace

“Credo, Signore, che sarei capace di compiere una volta, qualche atto straordinario. Un’azione che impegnerebbe tutto me stesso, se fossi sconvolto da una sventura, colpito da un’ingiustizia, se uno dei mie cari fosse in pericolo…

Ma ciò che mi umilia e spesso mi scoraggia, e che non sono capace di donare la mia vita pezzo a pezzo, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, donare, sempre donare… e darmi!

Questo non posso farlo e tuttavia è certamente ciò che tu mi chiedi…

Ogni giorno mille frammenti di vita da donare, in mille possibili gesti d’amore, che più non si vedono tanto sono abituali, e più non si notano tanto sono banali, ma di cui tu mi dici di aver bisogno per mettere insieme un’offerta e perché un giorno io possa dire in verità: Ai miei fratelli io ho donato tutta la mia vita.

E’ ciò che desidero, Signore, ma non ne sono capace… non posso farlo, lo so, ed ho paura.

Figliolo, io non ti chiedo di riuscire sempre, ma di provarci sempre.

E soprattutto ascoltami, ti chiedo di accettare i tuoi limiti, di riconoscere la tua povertà e di farmene dono, perché donare la propria vita non vuol dire donare soltanto le proprie ricchezze, ma anche la propria povertà, i propri peccati.

Fa’ questo, figliolo, e con i pezzi di vita sciupata, da te sottratti a tutti coloro che aspettano, colmerò i vuoti, dandoti in cambio la durata, perché nelle mie mani la tua povertà offerta, diventerà ricchezza per l’eternità.”

Michel Quoist  (fonte)

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Lottare

Tempi lontani ed echi che ritornano alla mente,
si infrangono sugli scogli del presente,
e non lasciano che un senso d’angoscia, di malinconia,
una gran voglia di gridare “torna!”.

Ora ricordo, sdaiato nel mio letto,
quando ero giovane e scoprivo la bellezza
di un’amicizia, e capivo che una bella amicizia é fatta di scoperte:
un tramonto, un bosco, la condivisione,
la vacanza, un posto nuovo, il giusto tempo,
cantare, giocare, costruire.

Un vuoto così grande,
che non si può coprire,
per quanto sia difficile
devi cercare di riempirlo
e non ce la fai, da solo.
Come venire trapiantato
in una buca nel terreno,
con un contadino
che dopo averti innaffiato
ti dice: “ora affonda le radici,
nutriti e cresci”.

Puoi più vivere allora
dietro una scrivania,
una parete domestica,
una maschera.
Non si vince una guerra
standosene in trincea,
ma affrontando il nemico,
uccidendolo, nell’azione,
non avendo paura di invadere il suo campo
e di giocare sporco, se necessario.
La noia, la paura, l’insicurezza:
io posso lottarci contro tutti i giorni,
e vincerle con le armi giuste.

Vivi come un guerriero
al servizio del suo re.

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Cosa ci posso fare?

Oggi la mia vita è illuminata dagli schermi del PC e del televisore. La ricerca di un senso sembra facilitata dai motori di ricerca, la mia sapienza viene accresciuta dalla consultazione di Wikipedia, la mia sete di nuovi stimoli viene placata dalla visualizzazione di filmati su Youtube (e, in passato, su siti dai contenuti ben poco nobili).
Sembra tutto gratis, quindi sembra tutto buono.

Dal mio PC accedo a storie e mondi che non pensavo di poter scorgere: i videogiochi mi portano a vivere storie di maghi, guerrieri, soldati e criminali, capitani coraggiosi e macchine veloci.
Tutto buono, tutto bello. L’ipnosi mi prende, come sempre, e non posso più voler vivere le fatiche e i casini familiari e lavorativi di ogni giorno.

Vorrei leggere, vorrei cercare storie, mondi, sapienze e sensi nuovi in un modo più sano, meno alienante, ma non posso. Ormai tutto ciò che non è cinetica azione, effetti speciali o semplice rappresentazione grafica di un idea o di una situazione non mi interessa più.
Sono passato attraverso fasi creative, e a volte ci passo ancora: cerco piacere nella fotografia e nel disegno, perché mi sembra di poter creare da me questa potenza grafica, questa bellezza evidente, questa realtà stilizzata ed ideale.

Poi non è così, un po’ per il tempo che ci dovrei dedicare e che non ho, né ho intenzione di sacrificare per questo; un po’ per la coscienza delle mie ben limitate capacità tecniche, che non mi daranno mai abbastanza soddisfazione o riconoscimento; un po’ per la mia incapacità di appassionarmi a qualcosa, a un’arte, a un’opera, se non riesco a trovarvi un senso, un fine più profondo, ampio e radicato nella mia storia e nella realtà che mi circonda.

Forse ho paura di interagire con gli altri, di chiedere una mano, di sottopormi al giudizio del mio prossimo. Forse sono timido, oppure un vigliacco, e forse a nessuno importa chi sono, ma quello che faccio, oppure viceversa.
Gli schermi luminosi mi impediscono di interagine con altri, ma catalizzano su di essi la mia attenzione.
Sono come una falena che, di notte, rimane intrappolata nella ragnatela luminosa tessuta da una lampadina.

Questa è la mia situazione, cosa ci posso fare?

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Tu sai

Tu sai di cosa ho paura.
Tu sai cosa penso.
Tu sai le mie speranze, le mie incertezze, le mie mancanze.
Sai che di notte non voglio dormire, ma dormo solo perché è un modo sistematicamente sicuro per dimenticare.
Sai che di giorno ci provo a combattere la mia buona battaglia, a volte anche chiedendoti soccorso, e che però spesso rimango solo, mentre la notte incombe, ad aspettare che qualcosa cambi. Ad esempio, che mi venga strappato via dal cuore questo macigno che lo schiaccia e lo opprime.

Tu sai che cosa faccio, per riempire il vuoto che ho dentro quando sono solo.
Sai la paura che ho al pensiero di legarmi a qualcuno, mentre legarmi a qualcosa è l’unico modo che ho per avere una minima certezza: ho una casa, ho una chitarra, ho una macchina fotografica, ho un computer, ho una televisione, ho un cellulare… Quindi esisto, quindi sono.

Tu sai, quindi, che quello che ho appena detto è una menzogna.
Sai che esisto, e lo sapevi prima che io fossi o che io facessi alcunché.
Lo sa anche il diavolo, e per questo me la spaccia come unica verità.

Lui non sa, però, quello che sarà. Lui sa solo quello che era e quello che è.
Il diavolo è miope. Una talpa che lavora sotto terra per minare le fondamenta e far crollare la casa; rimane, comunque, una talpa e come tale va trattato.

Tu sai che quello che faccio non è quello che sono; che quello che ascolto non è quello che sento; che quello che mostro di me non è quello che vedo.

Tu sai che il mio ideale è il nulla.
Ok, forse ho un po’ esagerato con quest’ultima frase: penso che l’ideale di tutti sia la gioia perfetta, ma che pochissimi la perseguano realmente, forse perché è troppo difficile o perché è troppo doloroso.
Il nulla è l’ideale di scorta su cui ho ripiegato: “nulla” perché non ho realmente una meta, “nulla” perché è ciò che tutti cercano senza esserne mai davvero lieti, “nulla” perché è ciò che tutti ottengono; ciò che non ottengono sono dei frutti che siano davvero buoni.

Tu sai che non esiste il “nulla”, e mi insegni che il “vuoto” che sento è in realtà un’assenza di qualcosa che non solo lo riempia, ma lo completi.
Tu mi completi. Tu mi rendi pieno. Tu mi rendi felice.

Se la morte è come un vuoto, allora la vita è come una pienezza.
E se il mio vuoto è riempito di ciò che non riempie, allora non sarò mai pieno, soprattutto pieno di vita.

Se la mia morte è come una nudità, allora la vita è come una coperta.
E se mi vanto della mia nudità, chi mi coprirà quando chi è nudo sarà coperto?
La coperta mi copra, mi scaldi con il suo calore, e che io sia cosciente della mia nudità e accetti di essere coperto.

Tu sai che sono nudo, e ora lo so anche io.
Tu mi ami così, nudo come sono, e non mi hai detto te di coprirmi.
Tu mi hai coperto, è vero, ma se io fossi stato aperto al tuo amore allora non avrei avuto bisogno di vestiti per il mio corpo, ma di un nuovo vestito per la mia anima.

Tu sai della mia paura di fallire.
Sai che se dormo e non penso, ascolto musica e non penso, lavoro e non penso, cammino e non penso, è solo per la paura di fallire.
Vedo matrimoni fallire ovunque, figli abbandonati, persone tristi.
Ho un po’ paura, visto che hai scelto tu questa storia per me. Io non la avrei fatta così.

Aiutami ad essere di consolazione per chi vive un fallimento, perché tu sai che io non ce la faccio. Io mi giro dall’altra parte. Non vorrei essere così, ma lo sono.

Io voglio fidarmi di te.
Io voglio affidarti la mia vita. Voglio affidarti il mio fidanzamento. Voglio essere felice e ben oltre le mie aspirazioni. Voglio essere luce per gli altri, non catarinfrangente in una strada di campagna deserta.
E so che è vero tutto, sempre, con te. So che è arrivato il momento di affrontare dubbi, domande, incertezze, e non solo nascondendole o non pensandoci.

E’ ora di cambiare, di evolvere, di decidere. E, in tutto questo, di essere me stesso.

Tu sai quanto ti cerco, sono io che non so quanto tu cerchi me, mi parli e non ascolto. Perdonami.

Grazie.

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Strudel

Sono uno strudel,
ma uno strudel svuotato.

Sono ancora abbastanza buono,
porto ancora il sapore del ripieno che mi farciva,
ma sono vuoto.

Croccante fuori,
vuoto dentro.

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Overeaters Anonymous, ovvero l’infinita tristezza

Quante volte ci accontentiamo di avere accanto qualcuno che ci dia attenzione, che ci consideri forte, bello, bravo, intelligente, sensibile, profondo e tutte quelle cose che pensiamo di non essere?

Ci svendiamo alla prima attenzione donata, abbandonando la nostra spina dorsale allo scheletro di qualcun altro.
Questo qualcun altro poi potrebbe andarsene, lasciandoci soli e senza spina dorsale, e questo non per sua “colpa”, ma perché non vede in noi quello che noi cerchiamo in lui.

Siamo ciechi.
Non vediamo persone, ma alberi che si muovono. Alberi da cui cogliere frutti per sfamarci, frutti che crediamo riempire il nostro vuoto che abbiam dentro, vuoto che non può essere riempito da qualcosa o qualcuno.
Ci crediamo più furbi di chi ci ha messo dentro quel senso di insoddisfazione che ci spinge alla ricerca, ma piuttosto che ammettere di non saper vedere ciò di cui abbiamo bisogno ci accontentiamo delle prime persone, delle prime sensazioni, delle prime parole che sentiamo.
Ci accontentiamo di un sorso d’acqua ogni tanto, ma non vogliamo andare a dissetarci alla fonte per paura di lasciare le nostre misere sicurezze.

Abbiamo bisogno di un chirurgo che ci tolga la cataratta dagli occhi, di un oculista vero che ci faccia finalmente vedere, e non di un oculista ciarlatano che ci faccia solo guardare altrove.
Qualcuno che ci conosca da quando siamo nati -o anche prima- e che sappia consolarci e perdonarci quando sbagliamo, che ci spieghi perché siamo schiavi di questa fame compulsiva, bulimia o anoressia del cuore, e che sappia dirci come rompere con essa.

Qualcuno ha il numero dell’ospedale giusto per noi?

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Verità, sudore e riposo

Un masso, enorme peso,
grava sulla mia schiena,
mentre affannato lo porto
al luogo della mia dimora.

Un passo, impreco,
mi piego e incasso,
ancora un pugno o uno schiaffo
ed esploderò,
come un piccolo petardo
in mezzo a una strada affollata
nel giorno di Carnevale.

Soltanto un grosso sasso,
ma grande bellezza
verrà dalla sua incisione,
e forse servirà al mio godimento
questa mia fatica,
alla contemplazione
di una nuova cosa buona,
una nuova creazione,
per me e per lo scultore.

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La mia bussola

La guardo:
gira,
si perde,
si ritrova imbarazzata
e si nasconde,
come un bambino timido
dietro alla mamma.

La osservo,
mi aspetto la risposta:
“Qual è la direzione?”

La fisso, con occhi
pieni di lacrime,
per questo vento freddo,
e lei è lì,
nel palmo della mia mano.

E cos’è più importante,
la mano o la bussola?

Alzo gli occhi e li vedo:
felicità e vita,
come me,
ma senza questo fardello,
così vivi
che non sembrano reali.

Essi non sembrano, eppure sono,
oltre a questo apparente nulla,
al “tutto qui”, “ora”,
al segno tangibile,
e quello che fin’ora non ha visto
ero io.

Tutto ciò che io posso
è alzarmi e fare
qualcosa per me,
da me non previsto:
guardare sé stessi
oltre il proprio ombelico,
e camminare verso una meta
così desiderata
e così poco conosciuta.

Ti guardo e penso:
“guidami tu,
compagna di viaggio”
che io non riesco, e vorrei
fermarmi qui.