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La tua vita scadrà a breve

La tua vita scadrà a breve.
Sei come uno yogurt che porta in sé la lenta agonia di miliardi di fermenti lattici.
Lo senti dentro, lo ascolti, sussurrato da quel dolore che intorno al cuore si fa vivo ad ogni tuo respiro.
Una notte fa eri vivo, ora sei morente.

L’agonia si fa sempre più ronzante, e le infermiere carine e giovani sono vestite. Te le ricordavi spoglie di quelle uniformi larghe e per nulla stuzzicanti, azzurre e bianche, che sembravano degli imbianchini. Te le ricordavi con i giovani seni scoperti, legate e inginocchiate, imploranti pietà con i loro occhi alzati al cielo e le loro bocche imbavagliate, coperte del sangue degli innocenti arsi vivi in un inferno di zolfo.
Ti ricordi di ciò che avevi visto, ma non sai definirne i colori, né i contorni.
E’ stato un sogno? Un sogno erotico finito male?
I volti delle infermiere, gli stessi che vedi ora, in quel sogno vivido e senza contorni erano sfigurati dalla paura.
Provi a muoverti, ma il tuo corpo non osa rispondere.
Sul muro della camera il calendario segna la data sbagliata.
A guardar bene, è il calendario ad essere sbagliato: è quello del 2029.
12 anni. Abbassi lo sguardo e noti, col margine dell’occhio, la lunga barba bianca che spunta dal tuo mento.
“Oh! Cazzo!”, pensi.
Cosa era accaduto?
La tua testa è un balenio unico di pensieri – incidente quasi mortale paralisi o forse una malattia grave ictus ho battuto la testa ho perso i sensi dodici anni di coma barba bianca mi sarò pisciato addosso cagato addosso le infermiere mi hanno dovuto pulire le polluzioni notturne sono incontinente sono vecchio sto morendo…
Respiri profondamente attraverso la mascherina.
Ti riaddormenti quasi subito.

Al tuo risveglio, le infermiere carine sono invecchiate un po’, ma le uniformi sono le stesse. Con lo sguardo cerchi il calendario sul muro e lo trovi nella stessa posizione. 11 settembre 2031.
Trenta anni esatti dal crollo delle torri gemelle.
“Andiamo bene”, pensi.
Hai perso altri 2 anni a dormire, e la cosa ti sta un po’ sulle palle.
Provi a muovere un braccio e, stupito, riesci a portare la tua mano su quella dell’infermiera che ti sta insaponando le parti intime: lei, tutta assorta nella sua mansione, scoppia in un urlo impulsivo che smorza in uno stridio, e dopo averti fissato negli occhi per qualche secondo, con la mano a coprire la bocca spalancata, scappa fuori dalla porta.
Come mai? Cosa era successo? Cosa ti aveva ridotto in uno stato vegetativo per molti anni?
Provi a ricordare, ma non riesci a trattenere altro che poche immagini sfocate: le ragazze nude e coperte di sangue, un libro nero sul comodino, un arsenale immenso di revolver, semiautomatiche, fucili d’assalto e da caccia.

La stanza è ancora vuota. Ti togli la maschera dell’ossigeno e la flebo che hai infilata nel braccio, quindi provi a metterti in piedi.
Hai qualche difficoltà a muovere i primi passi dal letto, ma riesci a raggiungere il bagno aggrappandoti al mobilio della stanza.
In un armadietto a fianco del lavabo trovi, riposta ordinatamente sul ripiano, una divisa da infermiere della tua misura e, considerato che sei col gingillo all’aria, te la infili senza pensarci due volte.
Ti specchi e noti che la barba bianca che avevi intravisto nel tuo breve risveglio di qualche anno prima era stata tagliata: l’infermiera che si era presa cura di te ti deve aver rasato poco prima. Non ricordi di aver visto prima la tua faccia sbarbata, ed effettivamente ti piaci molto. Con i tuoi capelli corti grigi, quasi bianchi, sembri un cantante famoso. Forse con la barba bianca avresti dimostrato più anni dei tuoi 40…
Improvvisamente ti sei accorto di ricordare la tua data di nascita, 25 aprile 1991, Festa della Liberazione. “Bene, avanti così! Tra poco ricorderò altre cose!” pensi.
Con qualche difficoltà ti sposti di nuovo alla camera e apri l’armadio verde-acqua che copre tutta la parete a fianco della porta della camera e trovi un paio di stampelle – proprio quello che ci voleva.
Provi ad uscire nel corridoio. Alcune infermiere si accorgono di te e, vedendoti, scappano nella direzione opposta gridando.

Non capisci cosa sta succedendo: altro turbinio di pensieri – sono bruttissimo sono stato scambiato mi hanno messo la faccia di un mostro come nicholas cage e john travolta in face/off vogliono incastrarmi devo fuggire nascondermi aiuto polizia…
Ad un tratto due poliziotti con due bicchierini da caffè in mano sbucano da dietro l’angolo delle macchinette. Appena alzano lo sguardo verso di te, lasciano entrambi cadere i bicchierini che si rovesciano sul pavimento, ed estraggono con due mosse fulminee le loro pistole dalle fondine, puntandotele contro.
“Sono spacciato” pensi, indovinando la sorte che ti spetterà a breve.
Provi a bonfonchiare qualcosa in una lingua incomprensibile, mentre ti sfugge di mano una delle due stampelle. Essa cade in un rumoroso schianto metallico contro lo schienale della panca di acciaio posta nel corridoio.
Preso alla sprovvista dal tonfo, il poliziotto giovane e bianco si lascia scappare un colpo di pistola dalle sue mani tremolanti. Un colpo, un morto: complimenti neo-vice-commissario Rossetti, la sua carriera è già decollata.
La tua testa non fa in tempo a divenire teatro dell’ennesima tempesta di pensieri che subito si ritrova spalmata tra le mura e il mobilio di un corridoio d’ospedale.

“Piacenza, abbattuto il porno-terrorista satanista islamico”
Yussef El-Babel si risveglia dal coma dopo 14 anni e semina terrore nell’ospedale – Cobas: “Ennesimo caso di polizia brutale”.

Un lupo solitario radicalizzato dall’Isis? Un pervertito satanista? Sarà difficile capirlo: il terrorista di Piacenza è stato abbattuto ieri mattina in una sparatoria avvenuta nello stesso ospedale dove aveva eseguito l’attentato il 2 maggio 2017, e dove era stato tenuto in rianimazione per 14 anni a spese dei contribuenti.
Arrestato già negli anni precedenti all’attentato per reati quali sfruttamento della prostituzione, abigeato, spaccio e atti osceni in luogo pubblico, oltre che essere stato più volte citato in alcune testimonianze rilevate in inchieste sulle sette sataniche, l’aspirante killer dell’ospedale di Piacenza era un maghrebino abusivo di 40 anni, Yussef El-Babel. Caduto in coma dopo il trauma cranico riportato in seguito alla sparatoria che ne ha permesso l’arresto, El-Babel è stato freddato grazie alla prontezza di riflessi dell’agente Gianni Rossetti, che insieme ad un collega presidiava la stanza del maghrebino.
Durante il tentativo di attentato, un El-Babel fortemente narcotizzato e armato “di tutto punto” con armi giocattolo si era fatto strada nell’ospedale “Guglielmo da Saliceto”, aveva sequestrato buona parte del personale femminile in un ambulatorio, obbligando le donne più giovani a denudarsi. In seguito, il terrorista si era divertito a giocare al “tiro al piattello” con le sacche di sangue conservate nelle celle frigorifere dell’ambulatorio, spargendo il prezioso liquido sulle donne presenti e causando un enorme danno alla sanità. Il pericoloso terrorista era stato fermato nella sua folle impresa da un raid dello squadrone dei Cacciatori di Calabria, gruppo altamente addestrato dell’arma dei Carabinieri. Nell’abitazione abusiva di El-Babel erano stati ritrovati numerosi contenitori colmi di stupefacenti di varia tipologia in una dispensa, un finto Corano in cui era nascosta una fiaschetta colma di assenzio e diverse confezioni di armi-giocattolo, che risultarono rubate dal magazzino del negozio “Mercatone Haomai” di San Rocco al Porto.
Da “Libero” del 12 settembre 2031, taglio basso della prima pagina.

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2011

E’ il 2011. Fino all’anno scorso i rocker alternativi si facevano chiamare “indie” ma – diamine! – siamo negli anni 2010: è ora di tornare ad essere alternativi come negli anni ’90.

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Memorie di un vecchio del ventunesimo secolo

Oggi il mio sguardo è un po’ più stanco.
Svegliarsi non è sempre semplice, soprattutto dopo essere andato a letto tardi per finire di sbrigare quelle faccende familiari da cui non puoi isolarti.
Ho spento la luce e chiuso gli occhi. Non ce la facevo più.
Una porta chiusa, una tapparella abbassata.
Il confine lontano, non lo vedo più.

Lei è sempre stata lì, pronta a perdonarmi.
Io no, mi sono sempre condannato.
Ma lei no, e nemmeno il prete. Quindi, collego, nemmeno Dio.
Nessuno di nessuno. Nessuno si è incazzato con me.

Un errore che si porta dietro da 9 anni.
Io mi incazzo con me, certo, quando penso che ho una figlia che considera tale quel prodigio di bambino che è mio nipote.
Un errore, non tanto per l’averlo fatto nascere, ma proprio perché qualunque cosa lui faccia la sbaglia.
E’ un errore vivente. L’incarnazione perfetta dell’errore.
Un coglione antropomorfo.
E ben le sta, vista la sua sfacciataggine.

Mia figlia è laureata con il massimo dei voti, ha fatto anche meglio di sua madre.
Si è sposata con l’uomo della sua vita, grazie al cielo.
Ha dato alla luce un bambino con un innato senso artistico, ma che è un brocco in qualsiasi cosa non sia artistico.
La sua bisnonna era una pittrice, e anche il suo bisnonno si dilettava in produzioni artistiche amatoriali.
Spero capisca che l’arte non dà un lavoro. L’arte non risolve problemi. L’arte dà solo risposte a domande che non sei sicuro di saperti porre.

Il marito di mia figlia è nero.
E’ nero di pelle, è nero fascista, è nero anche d’umore. Lavorava per un’impresa di pompe funebri, murava i cani morti nei forni al cimitero.
Lui ha trovato in lei l’unica via d’uscita da quel controsenso che era la sua vita.
Lui, un nero fascista, incazzato nero, mai amato da nessuno.
Lei, una bianca vegana, innamorata dei fiori, delle verze e della carne viva –  e non morta nel piatto.
Si sono incontrati al funerale del nostro cane.
Io certe cose ancora non le tollero.

Da quando seppelliscono i cani, con “cerimonie” pagate dalla Regione, a me sono cadute le palle.
Un celebrante con la fascia tricolore, la maschera da Pluto e un libro pieno zeppo di formule da recitare per garantire al cagnolino deceduto il riposo eterno (laico).
Sarò all’antica, ma per me una bestia se muore non va in paradiso.
Al massimo finisce sepolto dietro casa sotto un fiorellino, tanto per dire: “Caro Fido, sei stato proprio carino, grazie tante per la tua fedeltà e salutaci i vermi”.

Fido, che cane stupendo.
Che nome scontato, che pelo sporco, che carattere di merda.
Però mai una volta che mi abbia fatto entrare in casa un ladro, mai una volta.
I ladri, gli zingari, i testimoni di geova lo temevano, e io lo sapevo che me lo avrebbero avvelenato.
Secondo me è stato quel prete che una volta era stato morso da Fido alle chiappe… Quante risate!

Mi manca Fido, un po’, ma per mia figlia la sua perdita è combaciata con la perdita dell’innocenza.
Aveva 15 anni, lei. Mai un dubbio, fiera carnivora e cattolica fervente.
Poi questo episodio, il prete lei non lo ha mica mai perdonato.
Sì, ci va ancora a confessarsi da lui qualche volta, ma mica per il prete.
La morte di Fido l’ha portata a nutrirsi solo di fagioli e di insalate, di sedano e di pomodori e di mais.
E’ andata fuori di testa, la poverina.

Io certe cose non le tollero.
Non tollero i funerali dei cani.
Non tollero quelli che mettono il formaggio sulla pasta col tonno.
Non tollero quelli che arrivati alla mia età vanno ancora in palestra e si fanno la fidanzata, una all’anno, e credono di essere loro a non volere figli.
Non tollero questa mancanza di responsabilità negli uomini.
Le donne non ne hanno bisogno di uomini che non siano responsabili. Hanno bisogno di uomini che siano uomini, non femminucce.
Sennò ha senso tutto, dal funerale dei cani al divieto di sposarsi tra uomo e donna se non si fanno figli.

Io avrei riso, se me l’avessero raccontata quando mi sono sposato io.
Crescita 0. Ogni donna ha 0,05 figli. Siamo solo vecchi.
A 65 anni sono ancora giovane, rispetto alla gente che circola.

Mia figlia ha avuto subito un figlio, ora aspetta un’altra bimba.
Non perché la volesse, ma perché se in età fertile non fai un figlio ogni 5 anni (non un anno di più, ne uno di meno) ti annullano il matrimonio e devi pagare una multa salata.
Lei voleva una famiglia numerosa, poi è passata la legge e non è più possibile fare figli se non quando l’ASL ti manda il richiamo.
Ogni 5 anni, l’ASL chiama le mogli della città, gli dà la pillola per rimanere incinta e dà 30 giorni di tempo.
Dopo 60 giorni dal richiamo c’è la visita: se la donna non è rimasta incinta, fanno le dovute visite mediche.
Se è la prima volta, se la donna è sterile viene avviata la procedura di annullamento del matrimonio.
Se non è la prima volta, si procede con le cure di ormoni per poter effettuare la fecondazione in clinica.

Per fortuna non è stato un grosso problema per mia figlia.
E’ rimasta incinta al primo colpo di quello strabiliante coglione di mio nipote.
Un biondino, chissà come è uscito. Mia figlia ha i capelli neri corvini e gli occhi verdi, e lui la ricorda solo vagamente in certi tratti dolci del viso.
Il padre donatore deve essere stato un nordico.

Il marito di mia figlia non sapeva di poter avere figli.
Nessuno glielo aveva insegnato, perché ormai sono cose che non si credono possibili.
Io sì, ho messo incinta mia moglie, ma erano altri tempi e certe cose si potevano ancora fare.

Belli i vecchi tempi, quando potevi andare in moto senza casco o fumare nei luoghi pubblici.
Non che io fumassi: avevo solo 12 anni quando la legge antifumo è stata approvata, nel 2003.
Però si respirava un’aria diversa, forse perché non c’era bisogno di tante leggi, una volta.

A 5 anni dal concepimento del piccolo coglione, il nero fascista ha messo incinta mia figlia, non so come sia accaduto. Cioè – lo so, ma non speravo fosse ancora possibile.
Mia figlia poi lo ha dovuto segnalare all’ASL, che suo marito è “non sterile”.
Al nero gli hanno fatto i controlli, la profilassi e tutto quanto.
Lo hanno dimesso dopo qualche giorno, dopo averlo dichiarato sano e avergli fatto la proposta di diventare donatore di seme.
Lui non se lo aspettava, e penso che voglia declinare.
Quelli come lui e come mia figlia, a volte, preferiscono non accettare certe pratiche moderne.

Resta poco tempo, ancora.
Ho 65 anni e penso che i miei giorni finiranno prima del tempo.
In ogni caso, non so quanto resti a mia moglie.
Lei ha 66 anni ed è ancora bellissima nonostante l’età, ma inizia a dare qualche segno di cedimento.
Dopo la menopausa ha avuto un lentissimo ma progressivo peggioramento nella deambulazione.

Siamo in due, non siamo soli.
Quando avvengono certi incontri, la tua realtà non può più essere virtuale.
Bisogna affaticarsi, sporcarsi, cedere.
Ci si deve svegliare più stanchi di quando sei andato a dormire.
Questo, la realtà virtuale non te lo permette.

La mia memoria finisce quando termino i giga sul telefono.
“Troppo tempo attaccato al telefono”, mi dice.
“Troppe app, e non mi so applicare”, penso io.
Pelle sottile, la mia. Si rompe con un graffio.
Ci manca che mi si rompa anche a me la dentiera, e sarò condannato a un’eternità di brodini.
Fortuna che manca poco, ancora.

Era facile, quando ero giovane, bello, alto, snello, simpatico, con un duro pisello, libero da moglie come un fringuello.
E mi piaceva fare rime stupide, che vincevo le gare di poesia contro i miei amici buttandola sul nonsense.
Era facile allora, o la facevo facile io.
Ora mi sembra inutile.

Il pela-scorza del dolore ha tolto la scorza acida e profumata da quel limone dalla polpa gonfia e sugosa che è la mia vita.
Il mio fisico avvizzito l’ha spremuto.
Ora devo bere dall’amaro calice tutto il suo aspro succo.
Troppo limone. Se chi vive sperando muore cagando, io spero di non morire stitico.

Chi mi ridarà la scorza frizzante di quegli anni giovani, passati a dover fare scelte?
Chi mi ridarà le opportunità che ho perso, le scelte che spettavano a me e che ho relegato alla poltrona?
Chi mi ridarà lo spirito di freschezza, di coraggio e di osservazione che ho sostituito con un’app per organizzarmi la vita e renderla scevra da imprevisti?
Chi mi ridarà i migliori anni della mia vita, ora che sono vecchio?

La mia vita. Una, sola.
Bisogna essere in due, per non essere soli.
Una boccata d’aria fresca in questo mattino umido e ventilato nella periferia della mia città.
Qui ci sono nato, cresciuto, mi sono sposato, ho dato i natali alla mia prole, sono invecchiato e sono morto, più e più volte.
Tutte le volte senza una speranza, perché le cagate più grandi le avevo già fatte.

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Una mano sola

Senza applausi, senza abbracci
senza stringere altre mani
non so spingere con forza,
né suonare una chitarra

Prego battendomi il petto
per il male che ho sentito
quando la sorte si è presa
il braccio, mentre offrivo il dito

Leggo libri e volto pagine
e a volte il libro si chiude,
e la noia un po’ si calma
la morfina non delude

Senza applausi, senza abbracci
oggi torno al mio divano:
oggi è un anno senza buchi
dormo e sogno la mia mano

Una mano sola resta
quando all’alba riapro gli occhi,
quando in testa mi balena
il pensier che fosse vero

Ma la mano non ricresce
nella notte a chi non crede,
a chi vende la sua vita
per comprarsi una partita

Fatto così come sono
senza più troppo dolore
la cancrena mi ha lasciato
ancora il battito del cuore

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Storie = Tesori

“Nel mondo ci sono tanti tesori meravigliosi e, se sai dove scavare, potrai trovare oro, argento, diamanti, tutti i tipi di tesori.
Ma se non sai dove scavare, tutto quello che troverai sarà roccia, e polvere.
Loro possono mostrarti dove scavare, e per cosa scavare, ma scavare spetta a te.”

Facile essere attratti da ciò che più troviamo grottesco, tetro, strano. Storie di vite disintegrate, di volti sfigurati e di menti drogate. Quanto sono raccapriccianti le trame di certi racconti o di certi romanzi, eppure quanto ci emozionano.

Difficile essere attratti da ciò che più troviamo vecchio, noioso, statico. Storie di vite vissute, di volti scavati dal tempo e di mani rovinate dal lavoro. Quanto sembrano scontate le vite dei nostri anziani, eppure quante cose ci insegnano.

Forse, per non restare destabilizzati da certe letture realistiche ma inventate, dovremmo tornare alle storie di vita ordinaria e insieme straordinaria dei nostri zii e nonni.
Se consideriamo la sapienza un tesoro prezioso, dobbiamo considerare che non tutto ciò che è placcato d’oro ed esposto in bella mostra alla Feltrinelli è un tesoro. Anzi, spesso i tesori sono sepolti nei campi, sotto terra e roccia.

Che sia faticoso e insperato trovarli, ok. Ma se il tesoro è tale, ti ripagherà della fatica.

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Close your eyes

Vorrei essere interessato.

Vacanza con gli amici,
stando sereno.

Immergermi nel dialogo,
nell’ascolto degli altri,
produrre nuovi oggetti della mia
futura nostalgia buona.

Ricordi e sospiri
per un bene passato,
desideri
per un bene futuro.

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La leggenda di Piplòn

Ricordo la storia di quella roccia
sulla via per Castellana
del povero diavolo addormentato
coperto di sabbia dalla tramontana.

Ricordo Piplòn che cercava di amare
-cosa bizzarra per un demonio!-
quella fanciulla di nome Gesandra,
e averla in sposa era il suo sogno.

Ma quella dama non ne volle sapere
di un matrimonio con un tentatore,
con cattiveria mefistofelica
tentò invano di spezzargli il cuore.

Ricordo Piplòn che mai s’arrese
e per il troppo amore, o il poco cervello,
decise di chiedere aiuto a qualcuno
portando corazza elmo spada e cavallo.

Si finse quindi un cavalier perbene
in soccorso di chissà quali dame,
provando ad aggirare frate Gesualdo
e venendo beffato come un salame.

Ricordo Piplòn che credette al monaco
e rimase per giorni fermo ad aspettare
perché la ragazza lo avrebbe sposato
solo se fermo fosse riuscito a stare.

Sette anni, sette mesi e sette giorni,
soli e lune con la fermezza di un sasso,
il sonno lo colse, incurante del fatto
che da vento e sabbia venisse sopraffatto.

Ecco la storia di quella roccia
che sulla via per Castellana
porta un diavolo addormentato
sotto una corazza un elmo e una spada.

————————– La nota da cui è tratta questa “ballata” è datata 27/10/2010. E’ basata sulla leggenda di Piplòn tramandata nella provincia di Piacenza, che potete leggere qui.

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Tre metri

Lo so che siamo tutti chiusi fuori.
Siamo tutti così lontani dalla tua testa in fiamme, perché mai dovresti ascoltarci?
Forse non ti ricordi neanche più chi siamo.
Dani, ascoltaci, ti amiamo.

Sembri un astronauta, con tutti quei tubi, e quelle macchine sembrano l’astronave con cui, da piccolo, dicevi che ci avresti fotografati tutti, là in alto, dalla Luna.

Invece ora siamo noi quelli troppo lontani per poterti abbracciare, e stiamo pregando che tu possa restare ancora un po’ su questa terra, con noi.

Forse tra qualche ora ti risveglierai, spaccherai a cazzotti e lacrime quella campana di plexiglass che ci divide, e sentirai le nostre grida di gioia.
Forse tornerai a camminare, a parlare, a ridere con noi.
Forse capirai con questa esperienza che un’amicizia come la nostra ha un sapore incredibile, che né la carne né lo spirito potranno mai farti gustare. E sa far rivivere i morti.

Forse, allora, sarà vero.
Forse che, a volte, è una caduta che ti porta in alto?

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Questa è la mia prigione

Lo so, Padre, ho sbagliato.
Sono stato ingenuo, vigliacco, bugiardo, ma non sono mai stato un violento.

Qua dentro l’aria puzza di sangue e merda, di lacrime.
L’odore di Cif sul pavimento non basta a coprire questa puzza metifica.

Solo un alito di vento.
Solo un alito di vento può cambiare l’aria qua dentro.
Aria fresca, aria pulita, in questa periferia dimenticata da tutti.
Forse anche te, Padre, ti sei dimenticato di noi?

Un alito di vento sta entrando tra le sbarre della finestra nell’atrio, di fronte alla mia cella.
Mi metto la sciarpa, per difendere quella salute che, qua dentro, è un vestito da signori.
Mi può fare male, il vento, ma lo invidio lo stesso.

Il vento può entrare e uscire da questa cazzo di prigione quando vuole.
Come un Robin Hood coi superpoteri ruba la mia prigionia, elude le guardie, porta il mio sguardo lontano, oltre quelle nuvole che, dietro alle sbarre e alla porta

blindata, non posso che intuire, imaginare là, nel cielo.

Qui dentro nessuno ride, nessuno canta, nessuno ama.
Sono tutti prigionieri, i carcerati quanto i carcerieri, e il vento è il solo che esce leggero da qua dentro.

Lo so, Padre, che sei con me, ma a volte la tentazione di uscire da questa vita, aprendomi una porta sui polsi, si fa davvero sentire.

Dopo una vita passata nel lusso, capisco che LUSSO non significa RICCHEZZA.
Io per questo fraintendimento ci ho rimesso un’infanzia, una giovinezza, e adesso anche i primi anni di un matrimonio insperato.
E ho un cuore debole, malato.

Quale direzione? Quale strada prendere?
Quale, tra una che riporta al gelido inferno della Camorra, alle vane certezza di una vita al servizio della morte, e una che, dopo un lungo cammino, porta al fallimento del Golgota?

Questa è la mia prigione, tiepida, grigia, nauseante.
La mediocre prigione di chi si ferma.

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All’ombra

La strada è grigia e vuota, ricorda una vecchia fotografia degli anni 60, quando questo quartiere fu costruito.
L’asfalto nero è così freddo e duro che entrare in casa è stato l’unico sollievo che ho provato davvero in questa giornata.

Devo avere dormito per cinque o sei ore, prima di accorgermi di essere solo. Mi sveglio di colpo, piangendo.
Perché questo pensiero terribile mi attraversa la testa proprio in quel momento?
Le ombre in casa sembrano bambini che giocano a nascondino.

Neanche le ombre si avvicinano a me.

Mi sono alzato e mi sono fatto una tazza di caffé, nero come la luce diafana di questa giornata vuota.
Lo sento, nella campagna lontana, un tuono è una voce che mi chiama.
È il diavolo che con la sua carrozza sta per passare a prendermi.

Ho paura, come mai ne ho avuta prima, della solitudine.
Provo a cercare un diversivo, qualcosa da fare, qualcosa per cui non dare ascolto alla chiamata dell’asfalto, che da freddo e duro che era, ora mi sembra così caldo e accogliente da farmici tuffare dentro, dal terzo piano.

“Cacca al diavolo e fiori a Gesù”, mi ritorna ora nella testa quella canzoncina dei tempi del catechismo: che si fotta il diavolo! Non posso dargli ascolto…
La solitudine è solo una bugia, una maschera per non affrontare il fallimento, così terrificante quanto concreto, di quello che credevo amore.

 

 

Non so come ne sono uscito, probabilmente è stata una chiamata da parte di qualche amico, forse una visita da parte di mio fratello, forse una preghiera.

Ho capito che essere nell’ombra non è come essere nel buio: ogni ombra sul nostro viso è il segno che c’è una luce più grande che ci colpisce.

Oggi è uscito il sole. Lascerò che mi scaldi, prima che venga sera.