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Pensieri e note

Per carità

Una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza… una meta.
Viaggiare, viaggiare, viaggiare.
Una vita leggera, come una foglia nel vento, oppure veloce come un piccolo pesce che sa nascondersi tra i coralli, a riparo dagli squali.
Una vita di zucchero, senza zucchero, col giusto zucchero, non nauseante, non amara, non aspra, giusto una zolletta nell’immenso sorso di tè nero che è la vita.

E’ a questo che dovrei ambire?
E’ a questo che ambisco.
E’ a questo che dovrei ambire.
Eppure non posso.

Non posso più ambire ad una vita tranquilla, senza troppi impegni, che scorre lenta e serena, senza problemi, senza intoppi, senza una meta, senza peso, senza sapore.
Non posso più accontentarmi di cose così alte, di cose così grandi, così ricche, così maestose come un palazzo regale, un tesoro antico o la Luna.

Ciò a cui il mio cuore ambisce è lo sguardo del vecchio.
Ciò a cui la mia mente ambisce è la mano del malato.
Ciò a cui la mia vita ambisce è il sorriso di un bambino.
E io non sarò mai così grande, ma ho una grande speranza.

Una speranza grande come quella solitudine, quella sofferenza, quella debolezza.
La speranza nella cosa che tutto copre, tutto sopporta. tutto crede,

E’ quella cosa che smuove, che affida, che entusiasma, che guarisce, che scioglie, che guida, che pondera, che dà sapore a questa vita così sterile e fertile.

Una vita che serva.

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Cosa ci posso fare?

Oggi la mia vita è illuminata dagli schermi del PC e del televisore. La ricerca di un senso sembra facilitata dai motori di ricerca, la mia sapienza viene accresciuta dalla consultazione di Wikipedia, la mia sete di nuovi stimoli viene placata dalla visualizzazione di filmati su Youtube (e, in passato, su siti dai contenuti ben poco nobili).
Sembra tutto gratis, quindi sembra tutto buono.

Dal mio PC accedo a storie e mondi che non pensavo di poter scorgere: i videogiochi mi portano a vivere storie di maghi, guerrieri, soldati e criminali, capitani coraggiosi e macchine veloci.
Tutto buono, tutto bello. L’ipnosi mi prende, come sempre, e non posso più voler vivere le fatiche e i casini familiari e lavorativi di ogni giorno.

Vorrei leggere, vorrei cercare storie, mondi, sapienze e sensi nuovi in un modo più sano, meno alienante, ma non posso. Ormai tutto ciò che non è cinetica azione, effetti speciali o semplice rappresentazione grafica di un idea o di una situazione non mi interessa più.
Sono passato attraverso fasi creative, e a volte ci passo ancora: cerco piacere nella fotografia e nel disegno, perché mi sembra di poter creare da me questa potenza grafica, questa bellezza evidente, questa realtà stilizzata ed ideale.

Poi non è così, un po’ per il tempo che ci dovrei dedicare e che non ho, né ho intenzione di sacrificare per questo; un po’ per la coscienza delle mie ben limitate capacità tecniche, che non mi daranno mai abbastanza soddisfazione o riconoscimento; un po’ per la mia incapacità di appassionarmi a qualcosa, a un’arte, a un’opera, se non riesco a trovarvi un senso, un fine più profondo, ampio e radicato nella mia storia e nella realtà che mi circonda.

Forse ho paura di interagire con gli altri, di chiedere una mano, di sottopormi al giudizio del mio prossimo. Forse sono timido, oppure un vigliacco, e forse a nessuno importa chi sono, ma quello che faccio, oppure viceversa.
Gli schermi luminosi mi impediscono di interagine con altri, ma catalizzano su di essi la mia attenzione.
Sono come una falena che, di notte, rimane intrappolata nella ragnatela luminosa tessuta da una lampadina.

Questa è la mia situazione, cosa ci posso fare?

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Periferie

Periferie abbandonate
Alla sete e alla carne
Alla passione e ai sensi
A debolezze come forze
Esercitate dal corpo
Sicurezza nascosta
Legacci scoperti
Catene addosso
Per farti rubare
Ogni innocenza

Meglio non resistere
Meglio arrendersi
Abbandonarsi a sé
E perdersi laggiù
In periferie lontane
Senza segnali
Nessuno che ti salvi
Nessuno che ti pensi

Meglio non pensarci
Meglio distrarsi
Scusarsi dicendo
Come se fosse niente
Parole vuole
Occhiate languide
Braccia alzate
Era inevitabile
Rifiutarsi
Prima o dopo
L’amplesso

Sentirsi colpevole
Di non aver scelta
Di non averne fatte
Quando avresti potuto
Ma era inevitabile
Cercare scuse
E sentirsi usata
Pezza da culo
E pezzo di carne
Con cui stimolarsi

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Ritorno a casa

Una città morta, che sta svanendo.
Abitanti che sono già svaniti anch’essi, e che non se ne sono ancora accorti.
Un’altra rotonda.
Un’insegna al neon: 18.43.
Lo stesso neon, due secondi dopo: +08°C.
Lo stress dopo una giornata di lavoro.
Un buco nello stomaco.
Un pensiero accomodante, antidolorifico, per quel buco nello stomaco.
Una premessa che mi pari il culo.
Un pentimento per il mio pensiero vigliacco.
Il dubbio che forse sarebbe stato meglio essere un cattivo ragazzo.
Il mio presente che non é più leggero del mio passato, troppo poco burrascoso.
La nostalgia per il fiume a cui ho messo una diga.
Le mie mani piccole.
L’abbraccio caldo di mia madre.
Le mani grandi e sicure di mio padre.
Il campanello da suonare.
Le porte del 4 che si aprono.
La pioggia che mi bagna i capelli.
L’ombrello che ho nello zaino e che non voglio aprire.
Il raffreddore, che domani avrò.
I lampioni accesi al mio passaggio.
Le auto parcheggiate vicino al bingo.
Coppie apatiche che tornano all’auto.
I soldi corsi via.
La luna, che non c’é.
Cani che abbaiano.
Skate park vuoti.
Ceneri bagnate.
Luci accese in soffitta.
Le chiavi che sono nell’altra tasca.
L’iPod che ho paura che cada per terra.
Un respiro profondo.

Ritorno a casa.

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Il lavoro

Un’amica, anni fa, mi parlava di quanto fosse affascinata dalla psicologia, dall’inconscio e dal suo funzionamento.
Mi raccontava di come siamo “repressi” dal Super-Io, di come senza il suo freno faremmo ciò che “davvero vorremmo”, di come noi saremmo in realtà soltanto delle “bestie” sedate da qualcosa che l’evoluzione, la civiltà o qualcos’altro ci ha ficcato nel cervello.
Secondo quanto sosteneva questa mia amica, l’uomo è misero, finito, già morto al momento della nascita proprio perché già destinato alla morte.
Lei sosteneva anche che la vita era sofferenza e che la morte auspicabile in quanto fine della sofferenza.
Io non so quanto fosse stata semplicemente influenzata dal Decadentismo e dal Romanticismo, ma certo doveva farle uno strano effetto doversi confrontare quotidianamente con gioie inaspettate – vivere momenti di serenità con gli amici, provare piacere nel coltivare una passione, scoprire di avere intorno individui che uscivano da sé stessi e che le volevano bene – e con fallimenti spietati – genitori fisicamente vicini ma umanamente lontani da lei, i segni del suo passato che tornavano a farsi vedere, delusioni affettive dovute a una certa superficialità nei rapporti.

Oggi, mentre ero seduto sul pullman sulla strada verso l’ufficio dove lavoro, si avvicina un mio giovane amico – va ancora a scuola -, che mi ha raccontato dello stage che sta facendo in queste settimane in preparazione alla professione che dovrà svolgere finite le superiori.
Vedendo come lui parlava un po’ stupito delle cose nuove che doveva fare, ho rivisto questi ultimi anni in un’ottica diversa e ho notato come sono arrivato al suo grado di “consapevole semplicità” solo in questo ultimo anno.
Mi sono accorto di aver appreso come il lavoro che svolgo non è qui per me come una condanna, ma come un dovere: dovere per avere frutti, dovere per imparare a vivere, dovere per crescere.
Non sono condannato a lavorare per punizione, ma devo lavorare per capire ciò che forse ho dimenticato.

Ho ripensato a quella mia vecchia amica, che non rivedo da anni, da quando ha fatto la scelta di non proseguire sulla mia stessa strada.
Lei ora fa una scuola per truccatori, per lei la forma ha vinto sulla sostanza e, per una che si faceva troppe domande sulla vita anziché fare esperienze, io lo considero un passo avanti (per quanto conti il mio punto di vista).
Ha smesso di farsi troppe domande e ha finalmente scelto una strada da percorrere: sono convinto che il lavoro serva per diventare adulti e liberi.

Prima o poi, forse, arriverà a interrogarsi sul senso di tutta questa menata (se già non lo fa), a capire che ha senso pensare che non può tutto concludersi con una morte-‘fine dell’esisenza’, come lo schermo nero dopo i titoli di coda.
Forse arriverà alla conclusione che l’unica vera conclusione è quella delle nostre preoccupazioni e ansie, è l’inizio dello stupore: il “Continue…” dopo i titoli di coda.

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Ulisse

Comprensione,
oggetto della mia insoddisfazione,
ti cerco, aurea pepita,
e non ti trovo in questo fiume
che forse è il tempo,
forse é la vita,
forse é la mia mente
superba, diabolica ma finita,
che vuole averti e come sempre
non avrà niente.

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Searchin’

A volte me lo chiedo se lo scopo della vita non sia altro che sentire quante più belle sensazioni possibili.

Ma l’uomo non è solo fatto per la ricerca dei sensi, ma anche ricerca di un senso.

Qui trovo un senso.

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Cercando un senso, cercando te

Una voragine
che non è vuota,
un dolore
che non fa male,
una fame
che non si può saziare,
ma che a pensarci
nemmeno si dovrebbe.

Aiutami,
curami,
liberami da ciò che mi tiene in catene.

Poi ancora loro,
come sempre,
con le loro forme e i loro corpi
perfetti e dolci:
gorgoni prosperose
che solo a guardarle,
con la loro bellezza spruzzata
come succo di limone negli occhi,
ti pietrificano
il cuore.

O forse sono io
che cerco una bellezza vana,
che resto indifeso
in questo bosco che nasconde vipere,
con il gozzo scoperto
e gli occhi chiusi,
come un condannato
in attesa della decapitazione?

Aiutami,
soccorrimi,
salvami dalla falsità e dal nulla che incombe.

Senso,
pienezza,
pace.