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Pensieri e note

Non so dove, ma bisogna andare

Tocca a te:
scegli la tua via
ancora una volta.

Pensavi di averla già scelta,
di essere sulla buona strada,
di conoscere già questi sentieri.

Pensavi che sarebbe stato facile
tornare indietro
là dove il tempo é miele
e lo spazio é stupore.

No. Ti sbagliavi.
Non esiste quel posto.
Non ci sono alberi sotto cui sdraiarsi,
alla cui ombra leggere un libro, o riposare.

Eppure il suo ricordo non ti da pace,
nonostante tu non voglia ricordare
la nostalgia ti tormenta,
la fame fa rumore, non ti lascia dormire.

Hai sentito che quel posto esiste
da un sussurro nel vento,
da una foglia di un albero,
dal sorriso di uno sconosciuto.

E ora davvero trasformeresti
queste pietre in pane,
solo per attutire la fame?

Davvero ti trastulleresti
aspettando che venga sera,
senza alzare un dito?

Davvero ti basta un’esistenza sterile,
in cui i giorni sono solo
numeri su un calendario da cambiare,
te che sei nata
quando una sera la televisione era spenta
e una scoperta si é compiuta?

Ora
tocca a te:
scegli la tua strada,
e cammina.

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Pensieri e note

Adonai Tzuri V’goali

“Il tuo silenzio mi uccide”.

Canta così quel cantante.
Io penso che ciò che mi uccide è il non riuscire a fare silenzio.

È facile rifugiarsi dietro delle parole, vedere la fatica da dietro una maschera e continuare facendo finta di niente.

È vero. “Il Signore è mia roccia e mia salvezza”, ma nella mia testa non entra l’idea che lui possa salvarmi: io guardo solo a me stesso, sono un egoista e spesso mi scandalizzo dello schifo che sono.

Ho un buco nero al posto dello stomaco, e non parlo solo del mangiare compulsivamente: ho dentro di me un enorme vuoto.

Spesso mi viene da pensare che la mia vita non vada bene, dovrebbe essere diversa, a partire da ciò che faccio e dalle persone che ho intorno.

Dopodomani è Natale e io mi chiedo quando verrai a fare luce nella mia vita.

In questo momento ho così paura, prima o poi dovrò affrontare ciò che evito da sempre, la morte che ho dentro e il suo compimento nelle scelte di vita che dovrò fare.

Io non so cosa é giusto per me, mi limito a vivere come vivo sempre, e ciò che mi consola è che tu sei fedele. Lo sei sempre stato.

Ho paura di cadere, di perdermi dietro alle illusioni di piacere che quel cornuto mi vuole abilmente rifilare tutti i santi giorni.

Quello che voglio essere e a cui tendo ogni giorno è un’ombra di ciò che sono e che tu vuoi che io sia. Felice.  Semplice come un bambino, perché i bambini si accontentano.

Ascolta le mie parole e abbi pazienza con me.

Donami la pace e togli da me questa rabbia e questa inquietudine.

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I rivoluzionari di Staceppa

Travestiti
da rivoluzionari,
non vedete
che siete rivoltanti?

Rivoltatevi, appena vi chiamano
“invertiti”, “froci”, “malati”,
ma la vostra pena non è la persecuzione
ma l’orgoglio.

Rivoluzione:
una parola vecchia,
ma la usate per ciò
che non sa davvero rinnovarsi.

Ma ciò che cambia
la vita, e della strada
ne cambia la rotta, la direzione,
il senso: non è forse rivoluzione?

Ciò che ne cambia l’essenza,
che rivoluziona il senso:
questa rivoluzione è meglio cercare,
che rivendicazioni vane.

Rivoluzione della mia vita,
Amore e Verità,
ti cerco e ti trovo,
e tu sfuggi dalle mie dita.

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Pensieri e note

La mia bussola

La guardo:
gira,
si perde,
si ritrova imbarazzata
e si nasconde,
come un bambino timido
dietro alla mamma.

La osservo,
mi aspetto la risposta:
“Qual è la direzione?”

La fisso, con occhi
pieni di lacrime,
per questo vento freddo,
e lei è lì,
nel palmo della mia mano.

E cos’è più importante,
la mano o la bussola?

Alzo gli occhi e li vedo:
felicità e vita,
come me,
ma senza questo fardello,
così vivi
che non sembrano reali.

Essi non sembrano, eppure sono,
oltre a questo apparente nulla,
al “tutto qui”, “ora”,
al segno tangibile,
e quello che fin’ora non ha visto
ero io.

Tutto ciò che io posso
è alzarmi e fare
qualcosa per me,
da me non previsto:
guardare sé stessi
oltre il proprio ombelico,
e camminare verso una meta
così desiderata
e così poco conosciuta.

Ti guardo e penso:
“guidami tu,
compagna di viaggio”
che io non riesco, e vorrei
fermarmi qui.

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Pensieri e note

Questa è la mia prigione

Lo so, Padre, ho sbagliato.
Sono stato ingenuo, vigliacco, bugiardo, ma non sono mai stato un violento.

Qua dentro l’aria puzza di sangue e merda, di lacrime.
L’odore di Cif sul pavimento non basta a coprire questa puzza metifica.

Solo un alito di vento.
Solo un alito di vento può cambiare l’aria qua dentro.
Aria fresca, aria pulita, in questa periferia dimenticata da tutti.
Forse anche te, Padre, ti sei dimenticato di noi?

Un alito di vento sta entrando tra le sbarre della finestra nell’atrio, di fronte alla mia cella.
Mi metto la sciarpa, per difendere quella salute che, qua dentro, è un vestito da signori.
Mi può fare male, il vento, ma lo invidio lo stesso.

Il vento può entrare e uscire da questa cazzo di prigione quando vuole.
Come un Robin Hood coi superpoteri ruba la mia prigionia, elude le guardie, porta il mio sguardo lontano, oltre quelle nuvole che, dietro alle sbarre e alla porta

blindata, non posso che intuire, imaginare là, nel cielo.

Qui dentro nessuno ride, nessuno canta, nessuno ama.
Sono tutti prigionieri, i carcerati quanto i carcerieri, e il vento è il solo che esce leggero da qua dentro.

Lo so, Padre, che sei con me, ma a volte la tentazione di uscire da questa vita, aprendomi una porta sui polsi, si fa davvero sentire.

Dopo una vita passata nel lusso, capisco che LUSSO non significa RICCHEZZA.
Io per questo fraintendimento ci ho rimesso un’infanzia, una giovinezza, e adesso anche i primi anni di un matrimonio insperato.
E ho un cuore debole, malato.

Quale direzione? Quale strada prendere?
Quale, tra una che riporta al gelido inferno della Camorra, alle vane certezza di una vita al servizio della morte, e una che, dopo un lungo cammino, porta al fallimento del Golgota?

Questa è la mia prigione, tiepida, grigia, nauseante.
La mediocre prigione di chi si ferma.

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Vagabondi

Continuavo a guidare, giorno e notte verso il nero più intenso, sulla strada bianca di neve, sulle curve e i tornanti del nord Italia.
Volevo farlo da tanto, tanto tempo, questo viaggio per quei paesini così rurali, così simili, ma così diversi, ognuno con una fortissima identità propria, ognuno una piccola nazione, a suo modo.
Sentivo il bisogno di cercare qualcosa lassù, tra le montagne che da Piacenza vedevo a malapena nei giorni più limpidi.
Senza pensarci troppo sono partito, cercando nuove idee, nuove persone, nuove risposte.

È stato durante uno di quei giorni che la incontrai.
Lei era ferma, con la testa fra le mani, in un piccolo bar sulla statale della Valsugana.
Piangeva, era disperata, con i suoi lunghi capelli biondi che le scendevano come sipari su un volto devastato dal pianto.

-Perché piangi?- le ho chiesto?
Il suo sguardo è scattato verso di me, un guizzo, una luce nei suoi occhi, come quella di chi si sente chiamare da qualcuno che non vede da anni.
Mi sono presentato, e le ho detto che era un peccato vedere una ragazza così bella piangere. Lei ha abbozzato un sorriso sincero, nonostante la banalità.
Le ho offerto una cioccolata calda, lei si è asciugata le lacrime e si è sistemata i capelli, che ora le correvano lunghi e lisci fino alle spalle.
Mentre la beveva a piccoli sorsi, mi ha spiegato che, pochi minuti prima, il suo ragazzo le aveva sputato contro quanto veleno avesse in corpo, lasciandola lì, abbandonata e senza un posto dove andare.
Mi ha detto che quell’uomo che credeva forte, coraggioso, fedele, è scappato impaurito alla notizia di un figlio in arrivo.
E io la vedevo lì, fragile, indifesa, con la sua mente immersa nella cioccolata.

L’ho fatta salire in macchina.
-Dove ti porto? Abiti in paese?-
Lei mi ha risposto che no, non abitava, né qui né, oramai, in alcun paese vicino o lontano.
I suoi l’avevano allontanata appena saputa la notizia, perché “un figlio fuori dal matrimonio è un grosso disonore per noi…”
Le ho proposto, allora, di venire con me, nel mio viaggio.

Siamo partiti, io, lei, la mia auto, le mie valigie e il suo zaino.

Dopo una settimana di viaggio, fra tappe in piccole comunità rurali e piccole gite, tra vivaci chiacchierate e caldi silenzi, dopo esserci pian piano conosciuti, lontani dai nostri problemi, su una panchina fuori da un rifugio sulle Dolomiti, ci siamo scambiati uno sguardo.
In un solo istante le mie insicurezze, le mie ricerche, i suoi abbandoni e il suo bambino, in quel momento tutto ha avuto un senso.
Quella chiamata, che nelle notti insonni sentivo dalle montagne, come un’eco, ora la sentivo come un sussurro al mio orecchio, così vicina e dolce.
E le ho risposto con un bacio puro e appassionato, rosso come il tramonto davanti a noi.

Guido, è notte, sulla strada ricca di foglie rosse, sulla strada dritta che porta all’ospedale. E lei, mia moglie, è qui, di fianco a me.
Il bambino sta per nascere.
Tutti ridono, tutti cantano, tutti piangono (di gioia).

Non so cosa stessi cercando in quel viaggio, ma so che ciò che cercavo ora l’ho trovato.