E’ strano come i luoghi comuni e le idee divulgate dai media si infiltrino sottilmente nella nostra testolina, senza gran rumore.
Proprio come nei film storici, una rivoluzione è in atto – solo che stavolta, non parte dal basso della massa proletaria, ma da molto più in alto/basso (a seconda di come la vediamo).
Una rivoluzione atta a sovvertire l’ordine della normalità e della stranezza, del giusto e dello sbagliato e del caos.
Gli esponenti delle maggiori correnti di “pensiero” (ammesso che pensino davvero) mettono in dubbio tutto e il contrario di tutto con intelligenza luciferina, e il bello (si fa per dire) è che non sanno cosa stanno facendo, né le conseguenze di certi buonismi.
Quello da cui gli strateghi della rivoluzione sono partiti, molto tempo fa, è stato infrangere la certezza basilare su cui si basa la realtà, intesa come luogo, tempo, origine e meta, e quindi senso della vita umana: l’unicità.
Unicità significa, innanzitutto, essere unici, non essere soli.
Unicità significa essere diversi dagli altri, non “diversi” con le varie accezioni secondarie del termine, preso singolarmente.
Unicità significa essere indipendenti, non succubi di idee, progetti, favole, menzogne, condizionamenti; essere indipendenti, in fondo, significa quasi essere liberi, perché la libertà non è uno stato (“stato di indipendenza”), ma un’esperienza.
Unicità significa avere dei doni – doni che dovranno essere accolti, usati, riposti con cura e raramente sfoggiati con vanto, se non sia l’occasione a richiederlo; avere dei doni significa doversi fare delle domande serie su come possano essere sfruttati al meglio, per la mia gioia e per quella di chi mi sta intorno (parenti, amici, società), in modo che la gloria personale non sia vana-gloria.
Unicità significa, a volte, essere scelti: chi è scelto riceve diritti che non tutti hanno, ed è sempre per il vantaggio degli altri – se uno è assunto a un lavoro, è per il presunto bene dell’azienda, così chi è scelta per rappresentare la propria regione a un concorso di bellezza nazionale, così come chi è eletto come sindaco, per il bene del comune.
La verità (ammesso che si possa dire tale parola così poco politicamente corretta, perché così poco relativa – n.d.D.S.) è che la libertà non è vera libertà se non è assoluta; libertà anche di sbagliare, di scontare pene, di soffrire, di morire.
La libertà che abbiamo dalla nascita non è a 180°, ma a 360°: la metà del cerchio che vogliono nasconderci è quella che, secondo loro, è scomoda, di scandalo, marcia, falsa, malata, mortale.
Tentano di fermare un cancro tagliando l’arto malato, quando è da millenni che la metastasi si è diffusa ovunque.
Siamo liberi ma siamo destinati a campare in prigione. Siamo nati vivi, ma siamo malati terminali di morte sin dalla fecondazione.
L’unicità è ciò che cerchiamo, è ciò che intendiamo come corona della libertà, come quello che le dà compimento (“sono diverso dagli altri, quindi non devo pensarla come gli altri”).
Dimenticandosi che un certo ordine è stato tratto dal caos per puro amore, e non per mettere in riga e quindi in gabbia i poveri umani (cosa che invece ama sostenere il diavolo spesso nelle tentazioni che fa a me), tali persone sostengono di aver la ricetta pronta per un’equità che di equo ha solo il volume, la forma, e non la massa, la sostanza.
Oggi il mondo dice insistentemente che siamo tutti uguali, che dire il contrario non solo è discriminatorio (quando in realtà è la stessa natura che ci dona delle discriminanti), ma attacca addirittura la libertà degli individui. Esagerati.
Ovviamente, i capi della rivoluzione ci vorrebbero tutti fatti con lo stampino.
Se si togliessero il paraocchi dell’ideale, vedrebbero la realtà, vedrebbero la natura che va in una sola direzione, vedrebbero l’ambiente, la Terra, il cosmo che è perfetto e basato su pilastri semplici e fondamentali.
Vedrebbero, e non inciamperebbero in essi, ma vi costruirebbero sopra.
Loro scartano le testate d’angolo e costruiscono sulla sabbia, in epoca di tsunami, terremoti e alluvioni.
Non c’è bellezza in quei grandi progetti, troppo complicati e faticosi da realizzare: i castelli vanno bene di sabbia o per aria, qui vogliono miniappartamentini in villette a schiera – tutti ben incasellati.
Ma la Bellezza vera è dirompente, è un onda che si infrange sullo scoglio del nostro cuore, e che a lungo andare lo levigherà e lo renderà nulla, solo un fondale: è una fitta allo stomaco, fame incessante dopo aver banchettato di ogni ben di Dio.
Solo l’inseguire questo anelito profondo ci dà pace, e non perché è una falsa speranza, ma perché è l’unica speranza che vale la pena di inseguire, che dà senso a tutto il resto.
Una domanda, quindi: chi sei? Chi sono io? E, se c’è tempo, perché sono qui?
Il tuo cuore sa a chi rivolgerle queste domande, se la tua mente sa fare silenzio.
Si può vedere, sentire, toccare, vivere la propria unicità, il proprio tempo, la propria realtà.
Non sei qui di passaggio, ma non sei qui per restare: sei qui per essere, ora, qui.
Poi sì, passerai oltre, ma non ora, non qui.